IL RICORDO

Dylan, il Nobel e i suoi due show salernitani

Nel 1989 si esibì al “Lamberti” in uno straordinario concerto Diciassette anni dopo il ritorno all’ombra dei templi di Paestum

Tutti ricordavamo . Subterranean homesick blues. Il pezzo della svolta elettrificata di Bob Dylan. Quello cantato in quel videoclip in bianco e nero dove mister Zimmerman era in piedi sulla destra dell’inquadratura a sfogliare cartelli con frammenti di testo. Il ritmo incalzante delle parole che suonava simile a quelle di certi scrittori che iniziavamo a far scorrere sotto i nostri occhi passando da I sottorrane di Kerouac alle Memorie dal sottosuolo di Dostoevsky. Eppure quando quel 21 giugno del 1989 Dylan aprì con questo brano il concerto allo stadio “Lamberti” di Cava de’ Tirreni, nessuno la riconobbe. Bob Dylan aveva 48 anni e ancora una grande energia. La folla oceanica che lo venne ad applaudire usci da quel rettangolo verde di parole e note con la consapevolezza di aver ascoltato un Maestro. Di quelli che aveva insegnato a ognuno di noi l’impegno civile. Così come nel nostro paese lo hanno fatto Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e Francesco De Gregori. Tutta gente la cui letteratura sonora è finita nei libri di scuola. E meno male. Così non c’è da storcere il naso se a Stoccolma qualcuno ha pensato bene di assegnargli il Nobel per la letteratura. Anche Karol Wojtyla si inchinò a quella Blowin’ in the wind citandone alcuni versi in un’allocuzione solenne durante il congresso eucaristico del ’97.

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Diciassette anni più tardi, nel 2006, Dylan torna nel Salernitano, stavolta a Paestum. Ha 65 anni e l’energia non è più la stessa messa in scema al “Lamberti”. Qualcuno, dal palco dei Templi, lo presentò dicendo: «Una vera e propria antichità spettacolare». Roba da schiaffi. Dylan non imbracciò mai la chitarra e suonò per tutto il tempo chino sulle tastiere offrendo il profilo – quasi le spalle – al pubblico. Anche lui da schiaffi.

Il concerto si aprì con Maggie’s farm (che chiuse quello di Cava de’ Tirreni), tanto per essere a tema con il circostante che lo aveva accolto. Quasi un presagio. «Cantano mentre tu lavori come uno schiavo e io comincio a essere stufo» si racconta nel pezzo. La metà del pubblico era lì per ascoltare un mito dei tempi moderni o cantare sopra le sue canzoni; l’altra, per imparare una nuova lezione. Tra il pubblico Vinicio Capossela e Luciano Ligabue che il giorno dopo quel 17 luglio 2006, avrebbe suonato e cantato a Salerno. Erano trascorsi quasi vent’anni da Cava de’ Tirreni e il peso del tempo si avvertì subito. Anche in quella occasione, nessuno riconobbe il brano – benché meno popolare di Subterranean homesick blues –. No non ci fu verso di capire nemmeno quelli successivi. Dylan non è un juke box. È uno che sul suo materiale ci lavora costantemente. Taglia, arricchisce, riduce, cuce, riarrangiando la materia vecchia in una forma nuova. Inutile voler fischiettare le sue note o cantare le sue parole in coro, i concerti sono live inediti. E questo significa rispettare il pubblico che paga il biglietto.

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Diciassette anni prima, a Cava de’ Tirreni, mister Zimmerman aveva regalato al suo pubblico anche una cover, Pancho and lefty del cantautore statunitense Townes Van Zandt. A Paestum fece una versione di Mr.Tambourine man spinta al massimo. Quasi hard rock. Ma che importa. Contano quelle parole ascoltate, mentre lo hai a due passi da te. Per guardarlo in quegli occhi di ghiaccio e provare a capire quanta poesia c’è ancora in quelle parole ascoltate su nastri e vinili.

E così a Cava, e così a Paestum, in tanti chiusero gli occhi mentre nell’aria la voce ferma cantava l’orrore della prigionia, della guerra in Vietnam, della borghesia finita in disgrazia, di una carrellata di maschere surreali e di presenze oscure. Insomma di un mondo ingiusto che finisce in rovina e per il quale «non hai bisogno del metereologo per sapere da che parte soffierà il vento». Per questo «stai attento ragazzo».

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