Don Scarano fece spiare uno dei cugini D’Amico

Marcianò, nella sua deposizione, svela le lotte interne alla famiglia di armatori «Paolo chiese al monsignore le apparecchiature per intercettare Cesare»

Don Nunzio Scarano, negli ambienti dell’alta finanza in cui operava, pare che venisse soprannominato “don 500” per la dimestichezza con le banconote di taglio alto. Viene fuori anche questo dal lungo interrogatorio cui si è sottoposto lo scorso 3 luglio Massimiliano Marcianò, imprenditore vicinissimo al sacerdote salernitano finito in carcere lo scorso 28 giugno con l’accusa di corruzione e concorso in calunnia. Dalla deposizione di Marcianò, però, non si evince solo la familiarità di don Nunzio con i soldi, tanti soldi, ma anche con tutto ciò che ha a che fare con le intercettazioni, se non proprio con lo spionaggio. Tant’è che Marco Lillo, che nei giorni scorsi ha pubblicato su “il Fatto quotidiano” i passaggi più emblematici della deposizione di Marcianò, battezza il prelato salernitano “don 007” o “monsignor cimice”. I verbali ricchi di dichiarazioni dell’imprenditore raccontano che la singolare capacità di don Scarano - quella di rintracciare con facilità qualcuno che sia esperto di intercettazioni - viene richiesta dall’armatore salernitano Paolo D’Amico quando costui litiga con il cugino Cesare. “Paolo D’Amico si è rivolto a Scarano per rintracciare una persona in grado di trovare le apparecchiature per fare le intercettazioni delle conversazioni tra Cesare D’Amico e Carlo Lomartire, tesoriere della società. Scarano si è rivolto a Gaetano Palladino che ha installato le apparecchiature negli uffici di Cesare D’Amico e Carlo Lomartire”. Marcianò, nella sua testimonianza è oltremodo preciso: “Le registrazioni sono durate circa due mesi - afferma - e le apparecchiature sono state sostituite più volte”. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che i due cugini, discendenti dell’armatore salernitano Giuseppe D’Amico, a poche ore dall’arresto di monsignor Scarano vennero raggiunti, insieme al terzo cugino Maurizio, da avvisi di garanzia nei quali si ipotizzava il reato di evasione fiscale nell’ambito dell’inchiesta che indagava, e ancora indaga, sul tentativo, poi fallito, di far rientrare in Italia 20 milioni di euro. Secondo la procura di Roma, che ha già interrogato i cugini, quei soldi erano a loro riconducibili. Ma sia Paolo che Cesare hanno rigettato l’accusa dicendo che loro, con quei 20 milioni, non avevano niente a che fare. Marcianò, però, nella sua deposizione, descrive anche i rapporti che legavano gli armatori salernitani al monsignore conterraneo e parla dei soldi degli armatori: 2Per quanto ne so io - afferma - provenivano da Montecarlo con bonifici esteri direttamente sui conti dello Ior di Nunzio”.

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