«Cresciuta a pane e zia Rina tra timori e sensi di colpa»

Il racconto choc di un’ex aderente al gruppo che a 38 anni si è ribellata ai diktat «Noi ragazzi subivamo terrorismo psicologico. È stato Dio a salvarmi dalla pazzia»

«Sono cresciuta a “pane e zia Rina”. È stato lo status symbol della mia infanzia e adolescenza imbavagliate in una famiglia rigida e tradizionale dove il “Tu devi” era la parola d’ordine». Anna, nome di fantasia per salvaguardare la sua privacy, ancora ha la voce che trema quando ripensa ai lunghi e sofferenti anni passati all’interno del Gregge. Molte delle sue decisioni, anche le più intime, non è stata lei a prenderle ma il gruppo di preghiera di cui la sua famiglia, e quindi per forza anche lei, faceva parte. Quarta di cinque figli – «“Venuti al mondo come conigli”, proprio come cantava De Gregori», – nati nei primi soli sei anni di matrimonio dei suoi genitori, Anna, a 38 anni compiuti, sposata e con figli, in seguito a prolungate crisi d’ansia, decide di ribellarsi al «regime da caserma» in cui aveva sempre vissuto.

«È stato Dio a mandarmi un messaggio. Dovevo svegliarmi, uscire dal torpore in cui mi avevano relegata e vivere la mia vita. E così mi sono salvata», dice con una luce negli occhi che dice molto più delle sue parole.

Com’era la vita all’interno del Gregge?

«La sera rigorosamente tutti e cinque i figli alla stessa ora in preghiera per il Santo Rosario con mamma e papà e tutte le grandi solennità religiose a timbrare il cartellino di presenza nella cappellina a Pagliarone ai piedi della veggente procidiana, convinti che la salvezza era solo lì e noi che facevamo parte del gruppo eravamo dei privilegiati, tutto il resto del mondo era fuori».

Quali erano le regole a cui doveva sottostare chi faceva parte del gruppo?

«Preghiere diurne e notturne, digiuni, fioretti spirituali in un clima di timore e terrorismo psicologico qualora una di noi si fosse azzardata a venire meno alla “catena” di preghiera che doveva andare avanti 24 ore su 24 seguendo dei turni ben precisi, che prevedevano veglie anche nel cuore della notte. Chi non seguiva queste regole veniva allontanato e le nostre “maestre” erano sempre pronte a creare divisioni “spirituali” tra di noi e i “peccatori”».

Anche la vita sociale dovevarispettare i diktat del gruppo?

«Soprattutto la vita sociale. Al mare potevamo indossare solo il costume intero e tutto l’umano e ingenuo agire di tante di noi, appena ragazzine, era ritenuto peccaminoso come, ad esempio, frequentare maschietti, andare alle feste, fare tardi la sera. E che dire dell’assurdità di offrire i primi tre giorni di matrimonio a Dio senza “consumare” per compensare il peccato di coloro che non arrivavano illibati all’altare. Alcuni bambini, ma solo quelli delle famiglie più in vista, scelti dai capi, facevano la prima comunione già a 3-4 anni. Ma sempre in un clima di timore. Mai un sorriso, mai un incoraggiamento, una parola buona, solo un carico di apprensioni, tensioni, responsabilità in vista di quello che poteva succedere, catastrofi o calamità naturali, se non ci fossimo impegnati a realizzare l’agognata salvezza dell’anima».

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