ELEZIONI 2020

Così vince l'identità campana

De Luca a valanga: «Vince il popolo»

Sarà pure una coincidenza tecnica, tipica di un election day, ma c’è un filo logico e politico tra le parole sentite ma non pronunciate da chi ha vinto le elezioni regionali, da Nord a Sud, e il larghissimo risultato del sì. Nessuno dei governatori ha voluto politicizzare le ragioni del sì, sport largamente praticato nei circuiti intellettuali e politici dell’election day. Hanno probabilmente preso atto del risultato, ma intimamente coltivato l’opinione di una considerazione di fondo vera ed autentica, maturata sul campo del contatto diretto con i cittadini. Semplice. Quel largo consenso al sì denota un popolo stanco che, per assenza di potere e voce, non ha altri strumenti che la spietata e silente contestazione referendaria. È stato un ennesimo atto di populismo? È solo l’ennesimo giudizio che svicola la vera volontà del popolo: cambiare. Cambiare, cambiare. Usando con il sì, e per l’ennesima volta, un verbo vero, ma corrotto negli ultimi decenni da ondivaghe speranze deluse (basti vedere il calo politico elettorale dei Cinque Stelle). Per chi ha vinto, invece, quel 40 per cento degli sconfitti non deve essere considerato un valore a caso.

Ma, invece, rappresentare il numero su cui poter basare una proposta politica, che è il numero degli elettori che rispondono sempre “presente” a interrogativi istituzionali concreti e decisivi. Nella giornata del sì, che andrebbe urgentemente accolto e non solo coccolato da interessate dichiarazioni, ci sono le vittorie dei sette governatori delle Regioni chiamate alle urne. A partire dall’ormai caso nazionale dell’exploit di Vincenzo De Luca. Ha vinto con il popolo, ha detto. Ha vinto né per la destra, né per la sinistra, ha aggiunto. Ma, soprattutto, ha vinto anche contro il Pd, che qualche mese fa aveva nominato perfino un capocorrente romano per dare vita ad una alleanza strategica con il Movimento Cinque Stelle e proporre l’ex rettore dell’università di Napoli, Manfredi, in alternativa allo stesso De Luca. Che, inutile dirlo, non avrebbe mai mollato il progetto di civismo campano realizzato e poi rivelatosi vincente.
Ha vinto. Punto. E non solo con i voti, lasciando alle spalle, come un consumato corridore di Tour, avversari stanchi e con le ruote sgonfie fin dalla partenza. De Luca ha vinto quando ha spiegato, con le parole di ringraziamento, il suo disegno di civismo campano, fondato innanzitutto sulla ritrovata identità regionale, a partire da Napoli, che chiede l’unità degli italiani. E, queste parole, dette dal governatore della più importante regione del Sud, sono già un programma da manifesto nazionale da esibire al Governo quando dovrà affrontare il tema della cosiddetta autonomia differenziata. Dall’alto della vittoria, avrebbe potuto innescare ragionamenti da leghista del Sud, teso a rinfocolare uno dei temi politici della società “tossica”, come l’ha definita lui stesso, connotata da aggressività istituzionale ed umana per nulla consapevole di un destino comune.
Qui entra il concetto di popolo, e non di gente. Qui entra una proposta politica del Sud, moderata e di buon senso, perfino traducendola in parole da sequenza di severa restaurazione democratica contro la dissociazione degli egoismi, i fantasmi dell’utopia e le tavole mummificate delle ideologie. Unire gli italiani, vale il recupero della regola. E nessuno la potrà recuperare annullandola nella sterile contrapposizione territoriale.

Ha vinto, richiamandosi al popolo. Perché nella società degradata esistono, sotto la superficie di una libertà senza regole, vistosi tratti illiberali: la prevaricazione di privilegi corporativi, la decomposizione di strutture istituzionali ossidate, la disparità sempre più intollerabile tra protetti ed emarginati. C’è qualcosa in più in un programma politico enunciato senza l’enfasi della vittoria, ma solo con la consapevolezza di un nuovo lavoro che ha i tratti distintivi della quotidianità, fin dall’abituale vestiario. Inutile dire che ogni sequenza della ricostruzione istituzionale, a Roma, a Napoli, in Campania, si potrà esaurire in un perimetro puramente formale. Non basteranno regole elettorali se non si caleranno in realtà ricondotte ad un rapporto tra credibilità delle istituzioni e diritti e doveri di un popolo. De Luca sa che è alle spalle la laicizzazione dei rapporti tra le forze; ha costretto sé stesso per primo, cresciuto nella “chiesa” comunista, a misurarsi sul concreto dei problemi piuttosto che intorno alla cultura degli schieramenti.
Ha vinto così. Oggi c’è nel Paese un rifiuto dell’ordine prevaricante di quella che un tempo fu la partitocrazia, sostituita, una volta sepolta, da lobby eleganti che spesso preferiscono l’obbedienza alla meritocrazia. De Luca ha ringraziato con parole impegnative, da cambiamento.

Non sappiamo, però, che peso di classe dirigente potranno esibire gli eletti al Consiglio regionale in questa sfida nazionale che il governatore lancia. E quanti di essi siano, poi, consapevoli che il mandato popolare è molto più di una indennità sul conto corrente bancario.