Così Scarano trattava i suoi compensi

Il monsignore al telefono: «Mi servono per prendermi la casa di lì. Ho detto due e mezzo perché uno va per Paestum»

SALERNO. «Ho detto due e mezzo, perché uno se ne va per Paestum e un altro se ne va per là». Monsignor Nunzio Scarano parla al telefono, riferisce della disponibilità di Giovanni Carenzio («mi ha detto che... tutto quello che mi serve») e quando l’interlocutore gli chiede quanto si farà dare snocciola quel “due e mezzo”, perché «se devo aiutare lì, per prendermi la casa di lì, purtroppo ci vogliono». Per gli inquirenti romani è l’ammontare del suo compenso per il rientro di capitali dalla Svizzera organizzato a beneficio degli armatori D’Amico, denaro che il prelato vorrebbe utilizzare per affari immobiliari a Salerno e a Capaccio, lo stesso genere di interessi per i quali nel 2009 ha architettato uno scambio tra assegni e contanti che è costato a lui e ad altri 56 salernitani l’accusa di riciclaggio. L’inchiesta romana, che lo ha portato in carcere per corruzione insieme all’agente segreto Giovanni Zito e al broker di Pompei Giovanni Carenzio, si incrocia con quella salernitana in più punti. Nell’ordinanza cautelare il giudice delle indagini preliminari, che domani aprirà gli interrogatori, argomenta la necessità della custodia in carcere con una «pericolosità sociale» avallata anche dalle dichiarazioni rese a Salerno dalla commercialista Tiziana Cascone (pure lei indagata) «relativamente alle modalità anomale e più che sospette per la estinzione di un mutuo». Poi sottolinea che «analoghe ed anomale procedure sono emerse dalle intercettazioni relativamente ad operazioni finanziarie poste in essere dallo Scarano nei suoi rapporti con la famiglia D’Amico». E anche qui Campania e Lazio si incontrano. Gli armatori, al vertice dell’industria marittima nazionale, sono originari di Salerno e vi sono tornati tra l’altro, proprio insieme a Scarano, per una inaugurazione al seminario arcivescovile di Pontecagnano. Ma c’è molto di più. Dalle carte dell’inchiesta capitolina emerge che il monsignore e Cesare D’Amico (cugino di Paolo, presidente degli armatori italiani e pure lui sotto inchiesta per evasione fiscale) avrebbero un conto corrente cointestato. Gli inquirenti lo desumono da una conversazione in cui i due parlano delle preoccupazioni del terzo armatore coinvolto, Maurizio D’Amico, per alcune operazioni finanziarie. Un’occasione in cui l’ecclesiastico si fa garante della buona riuscita grazie ai suoi rapporti con i vertici dello Ior, la banca vaticana indicata come l’unico strumento sicuro e rapido per movimenti finanziari in elusione delle norme fiscali e antiriciclaggio. Allo Ior lui ha due conti, quello personale e un “fondo anziani” sul quale sarebbero confluiti i 560mila euro di finte donazioni su cui indaga la procura salernitana, assegni rimborsati dal prelato con denaro contante.

Oltre ai D’Amico l’ordinanza del gip fa però anche altri nomi, le cui posizioni sono ancora da chiarire. Quello di don Luigi Noli, ad esempio, a cui Scarano parla degli immobili di Paestum e dei soldi che gli servono. E poi Massimiliano Marcianò, «che ha un problema con l’Acea», per il quale lo 007 Zito assicura di aver contattato un Comando dei carabinieri dove un suo amico si metterà a disposizione. Entrambi sono persone fidate di don Nunzio, che infatti non esita a dire a Zito di consegnare a loro i 20 milioni dei D’Amico, se al momento dell’arrivo lui non dovesse essere in casa. Quei soldi non arriveranno, perché Carenzio fa saltare l’accordo e l’aereo che doveva prelevarli in Svizzera torna senza carico. Ad arrivare saranno, invece, le manette.

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