Così i processi lumaca negano i diritti ai cittadini

Ci sono decreti ingiuntivi milionari che da un biennio attendono la prima udienza Le imprese restano in balìa delle incertezze e preferiscono investire all’estero

Mi chiedo se oggi Pietro Calamandrei – grande giurista e nobile avvocato – avesse mai potuto scrivere quel meraviglioso libro – che consiglio come lettura ai giovani che si avvicinano alle professioni forensi – che è “Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato”, e soprattutto se avesse mai potuto scrivere che “il segreto della giustizia sta in una sempre maggiore umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore”.
Spesso il problema della “giustizia” nel nostro Paese viene ricondotto a profili organizzativi e strutturali, che restano senza dubbio importanti per far fronte al progressivo degrado sociologico della funzione della giustizia, cui si accompagnano molteplici e poco efficienti riforme sia del processo penale che di quello civile, ma che si presentano insufficienti se disgiunti dall’analisi del mutamento antropologico che si registra, purtroppo, nel rapporto tra avvocati e giudici. Non è che mancano riflessioni attente e puntuali sul tema, ad esempio voglio ricordare il bel libro di Paolo Borgna, “Difesa degli avvocati. Scritta da un pubblico accusatore”, nel quale si evidenzia che avvocati e magistrati rappresentano momenti distinti della funzione della giustizia e portano il loro contributo da posizioni e ruoli che non possono essere confusi, ma che restano entrambi importanti ed essenziali. Da sempre, l’osmosi culturale tra un’avvocatura colta e una magistratura attenta e consapevole sono rimasti i cardini della giustizia, dell’evoluzione della giurisprudenza verso terreni dapprima sconosciuti e sempre di più aperti a recepire istanze e motivazioni provenienti dalla società. Questo mondo è oggi in via di progressiva estinzione: da una parte l’avvocatura ha rinunciato – anche per una certa insufficienza di autorevolezza culturale dei propri rappresentanti sia a livello locale che nazionale – a quella funzione propulsiva che aveva caratterizzato la sua storia nel corso del Novecento, e dall’altra la magistratura si è sempre di più chiusa in una specie di autoreferenzialità, poco propensa al dialogo. Magistrati e avvocati sono da sempre, come quelle coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono consapevoli di non poter vivere l’uno senza l’altro, ma oggi essi si presentano – per utilizzare la stessa metafora – come coniugi che hanno accettato passivamente di separarsi, entrambi insofferenti della rispettiva presenza nel processo. È dato, allora, riscontrare una certa abulia nel decidere, cause che si protraggono nell’infinito temporale, e nella pratica giornaliera di ogni avvocato non mancano esempi: controversie aventi ad oggetto liquidazione di quote di società di capitali, che la norma sostanziale prevede determinarsi e corrispondersi in tempi ristretti e che pendono dal 2007 (ovvero da dieci anni); cause delicatissime per l’importo e per i soggetti coinvolti (società con partecipazione di finanziarie a capitale pubblico e imprenditori privati rampanti) che riguardano opposizione a decreti ingiuntivi milionari che dal 2015 non conoscono neppure la prima udienza decisoria; senza contare altre cause meno rilevanti per gli importi, ma essenziali per l’affermazione dei diritti dei litiganti.
I diritti di crediti sono così vanificati, e tanto spiega la fuga dal nostro Paese di società estere che non si fidano più della “giustizia”, delle sue incongruenze (a volte evidenti, con diversificazioni territoriali nel contenuto delle decisioni) e dei ritardi, sempre più incolmabili, in un contesto che richiede sentenze rapide, motivate e logiche. L’avvocato e il suo cliente restano sempre di più in balia dell’incertezza, sì che anche chi scrive, il quale svolge da oltre un trentennio la professione legale, è tentato di abbandonare la toga. L’antropologia dell’avvocato finisce per appiattirsi su quella figura solitaria e umanamente, oltre che professionalmente, marginale che viene descritta nei bei romanzi di Diego De Silva, che hanno come protagonista l’avvocato Malinconico. Di fronte a questo baratro, l’unica speranza, invero sempre più remota, è quella di un recupero nell’autorevolezza e nella consapevolezza dell’avvocatura del suo ruolo sociale e culturale, ma per fare questo vi è bisogno di un nuovo slancio, che abbandoni puri calcoli egoistici. Pure i magistrati dovrebbero ispirarsi a quei modelli di grande professionalità che hanno offerto giudici come Falcone, Borsellino, Livatino e tanti altri, che hanno pagato con la vita la professionalità e il coraggio. Oggi non abbiamo bisogno di parole, troppe ed inutili sono state negli ultimi anni, ma di azioni consapevoli, magari lente e nascoste, di uomini che, consci del loro ruolo, diano linfa vitale alle domande che provengono dalla società.
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