L'EMERGENZA EPIDEMIA

Coronavirus, «Io vivo per miracolo tra i morti Covid»

Francesco Maiorino è infermiere a Brescia. Nel 2015 un incidente uccise l’amico Andrea Cerbarano: in moto c’era anche lui

SALERNO -  “ Vivere o sopravvivere, senza perdersi d’animo mai, e combattere e lottare contro tutto ”. Dalla finestra socchiusa del dirimpettaio vien fuori la voce roca del “Blasco”, diffusa dall’amplificatore d’un vecchio giradischi e accompagnata dalle decise pennate vibrate sulle corde d’una chitarra acustica. E pare la burla di qualche dio, visto che sul display dello smartphone adagiato sulla scrivania c’è ancora il nome di Francesco Maiorino, un infermiere salernitano di 29 anni che, nel bel mezzo d’una pandemia che ha messo in ginocchio l’umanità, è andato 793 chilometri più a nord di casa sua. E ha preso servizio in un ospedale di quella Brescia maciullata dal Coronavirus. Nel bel mezzo della zona color rosso sangue, che «sogna di vivere e sopravvivere». E Francesco lo sa, quanto vale la vita: gliel’ha insegnato la morte, la carogna che s’è portata via il suo più caro amico, Andrea Cerbarano. Era una notte maledetta, quella tra il 18 e il 19 dicembre nel 2015: Francesco, 24 anni, e Andrea, 25, erano in sella alla stessa moto. Il rombo d’una Ducati, le luci gialle dei lampioni, l’asfalto di via Santoro, le scarpe sulle pedane, le mani sui fianchi. E una Renault Clio sbucata all’improvviso. Uno schianto, un tonfo, il ferroso sapore del sangue. E niente più. Gli occhi riaperti dopo qualche settimana, il suono degli apparecchi medici, i camici bianchi sfocati. E le parole raggelanti: «Andrea non ce l’ha fatta». C’è un prima e c’è un dopo, nella vita di Francesco, stretta tra il passato «che insegna» e il futuro che è «un dubbio». L’oggi di Francesco è nel cuore sanguinante d’un ospedale Covid, nella zona più scarlatta di un’Italia sofferente.

Come s’è ritrovato in ospedale a Brescia?

Ero a caccia di lavoro. E mi sono rivolto ad un’agenzia, comunicando d’esser disposto anche a spostarmi dalla Campania. “Fino a che punto?”, mi chiesero…

Fino alle terre del Covid…

Sì. Un’addetta, entusiasta, mi disse che sarebbe stato possibile inviare la mia candidatura per ben tre realtà ospedaliere, tutte in Lombardia. Alla fine ho scelto Brescia.

E ha inviato il curriculum…

Esatto. E dall’azienda m’hanno fatto sapere d’essere intenzionati ad assumermi bypassando l’agenzia.

E a tempo indeterminato?

Proprio così. È stata una bella iniezione di fiducia: di sicuro, di questi tempi, c’è una grandissima necessità, ma, a quanto pare, il mio curriculum è piaciuto.

Cosa accade in casa quando un figlio fa sapere d’andare a lavorare a Brescia ai tempi del Coronavirus?

Mia mamma è una caposala in pensione, mia sorella è farmacista e poi ho un fratello. E ne ho cercati, di posti in regione, ma ero impaziente d’offrire il mio contributo. E quando ho comunicato che avrei cominciato pure a cercare qualcosa al Nord, mamma s’è preoccupata. «Perché proprio adesso? Perché non aspetti?», m’ha domandato.

E perché non ha aspettato?

Ho 29 anni, faccio le mie scelte. E sì, sono andato in zona di guerra, ma questo è il mio lavoro. Me la sento. E non perché “devo”: è perché “voglio”.

Da quando è a Brescia?

Da venerdì scorso.

E quando l’hanno chiamata?

Di lunedì, 4 giorni prima.

Nel Bresciano dei 10mila infetti…

È la seconda provincia più colpita d’Italia. Qui i presidi sono tutti “Covid-Hospital”. In quale reparto lavora? In una sub-intensiva: la chiamiamo “zona gialla”.

E qual è l’istantanea delle prime 48 ore in “zona gialla”?

Una signora che m’ha detto: «Quanto è brutta questa malattia, speriamo che mi passi...». Poi ha chiesto: «Ci sono parecchi contagiati?». Io le ho risposto che sono in diminuzione. «Meno male, speriamo che gli altri non la prendano», ha replicato. E m’ha colpito.

“Prenda me, lasci in pace gli altri…”

Sì. Questa donna soffriva così tanto, fino a sentirsi soffocare, e dal suo giaciglio pensava a chi era fuori, come se il suo dolore fosse il male minore…

S’è già ritrovato dinanzi ai primi morti?

Sì.

Come s’affronta il decesso in corsia?

Bisogna evitare d’avvicinarsi eccessivamente al paziente, sul piano emotivo. Altrimenti non se ne esce.

Qual è l’età media dei pazienti in “zona gialla”?

Sono in età avanzata ed hanno molte comorbilità. Almeno da me.

Ha paura del virus?

No. Può succedere, d’aver paura, ma il timore non ha mai frenato i miei propositi d’andare avanti. E poi adotto tutte le precauzioni del caso: è più facile infettarsi andando in giro...

Lei, però, è sul fronte…

È vero, ma ne sono consapevole. È il mio mestiere e voglio farlo: sono rischi che affronto volentieri.

Una scelta coraggiosa: quanto ha influito quella notte di metà dicembre del 2015?

Tantissimo. Ciò che è successo m’ha cambiato.

In che modo?

La solidarietà c’è sempre stata, ma ora s’è presa tutta la mia vita: l’ho incorporata attraverso l’associazione onlus “A Casa di Andrea” e i suoi tanti progetti di beneficenza. Ormai appartengo alla solidarietà.

Il dolore plasma la vita...

È nato tutto da lì, per me. Il mio lavoro qui è in linea con ciò che stavo già facendo: m’ha reso felice poter contribuire alla grande lotta contro questo nemico invisibile.

Dopo l’incidente, pure lei ha combattuto a lungo…

Sì, sono stato in Rianimazione, sono stato in coma. Poi, però, mi sono salvato. E salvarsi dà un altro valore alla vita: vedo le cose più razionalmente, ma affronto tutto come un sognatore. Vedo la solidarietà, ed è un sogno: in questi giorni grigi, anche se non ce ne rendiamo conto, stiamo vivendo l’unione del Paese. I 10 euro in tasca in più si utilizzano per gli altri: è questa, la vera solidarietà.

Cosa direbbe Andrea?

Sarebbe felicissimo di sapermi qui: di questo sono sicuro.

Dice d’essere diventato un sognatore: qual è il suo sogno più grande?

Vivere. Anche sopravvivere. Sopravvivere è una fortuna, visto ciò che stiamo vedendo.

Vi chiamano eroi...

No, quelli lì volano e si teletrasportano. Ora le persone ci vedono al lavoro per 12 ore al giorno e si rendono conto di quanto sia fondamentale il nostro contributo, ma era quello che facevamo pure prima. E sì, ci chiamano eroi, ma non credo che lo siamo. Siamo infermieri, e stiamo in prima linea perché siamo lì da sempre.

Cosa farà quando tutto sarà finito?

Rimarrò qui, credo, e poi la vita m’indicherà la strada giusta: spero di saper imboccarla. Per ora vivo il momento, senza pensare al futuro. Il presente è ciò che conta: il futuro è un dubbio, il passato insegna…

A lei cos’ha insegnato?

A vivere diversamente: il passato m’ha reso ciò che sono. Farà parte di me sempre.

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