L'EMERGENZA EPIDEMIA

Coronavirus, Di Benedetto: «Io, medico paziente nel reparto Covid»

Il dottore è ricoverato al Curto di Polla: «Mi sono infettato lavorando, l’assistenza territoriale non funziona»

POLLA -  «Come sto? Molto meglio. Ho fatto doccia e shampoo dopo undici giorni. E sto mangiando cioccolata fondente». C’è un uovo d’una Pasqua surreale, nell’involucro d’alluminio adagiato sul comodino: Pierdomenico Di Benedetto, medico chirurgo ecografista, è seduto sul letto, tra le pareti d’una delle stanze del reparto Covid dell’ospedale “Luigi Curto” di Polla. E non c’è traccia del camice bianco; stavolta il dottor Di Benedetto indossa un pigiama: l’ecografista ha lasciato il posto all’ammalato, che da oltre due settimane tiene testa alla bestia chiamata Coronavirus, che l’ha sorpreso nel cuore d’una zona che non è più rossa. La sua Polla, in quel Vallo di Diano che gli ha dato i natali, prima che Battipaglia lo adottasse, e che lo ha riaccolto quando ha fatto ritorno a casa.

Una volta un imprenditore disse che la vera vita inizia a 55 anni. Di Benedetto, classe ’65, non l’avrebbe mai immaginato di festeggiare il 55esimo compleanno, mercoledì scorso, in un reparto Covid, tra mascherine e “scafandri” senza volto. Nei primi giorni d’un dannato 2020 aveva rivoluzionato le sue abitudini, Di Benedetto, lasciando l’amata clinica “Salus” di Battipaglia per prendere servizio alla “Tortorella” di Salerno. Senza mettere da parte il servizio di guardia medica e le visite domiciliari ai pazienti. «Non c’è nulla di più prezioso di curare un ammalato », ripete Di Benedetto, anche ora che, dopo quelle visite ai pazienti, s’è beccato quello strano virus arrivato dalla Cina. «Quando uscirò di qui, lotterò ancor di più per la sanità», giura a sé stesso. Poi infila le cuffiette, mette su un po’ di musica e fissa la finestra, rimirando i “ freschi crepuscoli d’aprile ” cari a Branduardi, che nei timpani del medico sussurra le sue “ Confessioni di un malandrino ”.

Come ha saputo d’essersi preso il Coronavirus?

Me ne sono reso conto subito. Era tra sabato 28 e domenica 29 marzo: m’è salita la febbre e ho avvertito un brivido diverso dal solito.

Era il brivido del Covid...

L’ho capito subito, proprio perché era differente: è caldo, il Covid, e t’accarezza, come se volesse portarti via con sé. E ti scuote, ti sfibra, ti toglie l’energia, con quella tossaccia. Con un po’ di fortuna, ed anche con quel pizzico d’esperienza clinica maturata, me ne sono accorto ch’era una tosse polmonitica.

E cosa ha fatto?

Di lunedì, il 30, avevo questa tossina strana, senza febbre. È tipico di questa malattia: la febbre va via e poi, dopo tre o quattro giorni, ritorna. Mi sono messo a telefono e ho quasi litigato con la collega del Dipartimento di prevenzione territoriale.

Per fare subito il tampone?

Sì. Cercavo di spiegare che sono medico, che ho visitato così tanta gente e che dovevo sapere. Alla fine si sono convinti...

Aveva continuato a lavorare fino ai giorni della febbre?

Il sabato precedente ero in servizio alla Guardia medica. Alla “Tortorella” a Salerno, invece, m’ero autoisolato da un pezzo, almeno da quando Polla era stata dichiarata zona rossa.

Poi s’è chiuso in casa in attesa d’un test...

L’ho fatto di martedì, il tampone. Il mercoledì pomeriggio è tornata la febbre. È scoppiata, fino a 38 gradi. Ho chiamato la collega, chiedendo conto dell’esito del tampone. M’ha richiamato alle 9 di sera: e m’ha detto che avevo ragione, che ero Covid- positivo.

Cos’ha pensato in quegli istanti?

“Mi devo salvare”: In quel momento si pensa solo a quello. Mi devo salvare perché sono giovane, perché ho i figli e perché non voglio morire. E se la polmonite avanza troppo, si rischia seriamente di morire: basta una microtrombosi a livello alveolare- polmonare e non ci si riprende più. Il polmone diventa un sacco fibrotico lacero.

Qual è stata la prima cosa che ha fatto?

Ognuno di noi ha il suo mentore: io ho chiamato il mio collega mentore e insieme abbiamo deciso di fare una terapia con l’idrossiclorochina. Per non uscire fuori, ho chiamato i ragazzi della Protezione Civile del mio paese, che sono fantastici.

Li ha contattati per avere i farmaci...

Sì. Mi serviva il Plaquenil, ma nelle due farmacie non si trovava. E ho cominciato a prendere soltanto l’azitromicina.

Poi è finito al “Curto”...

M’hanno ricoverato il giorno dopo, giovedì 2 aprile. Una fortuna: sono in un reparto Covid egregio. E m’hanno ricoverato perché non trovavo il farmaco. Ho chiamato il 118: La tosse era brutta. I colleghi del “Curto” m’hanno aperto le porte. M’hanno fatto la tc e la polmonite interstiziale, seppur lieve, c’era.

Come hanno reagito, nella sua famiglia?

Erano preoccupati, ovviamente. «Papà, ma come respiri?», domandava mia figlia. A telefono io cercavo di minimizzare: tranquillizzavo i miei cari, spiegavo che la mia polmonite interstiziale era lieve...

E invece non stava così bene?

Stavo male, mi sentivo una larva d’uomo, ma la situazione clinica era gestibile: ho avuto la febbre oltre i 39 gradi fino a lunedì 6 aprile. E subito dopo c’è stata una netta regressione.

Confermata dai test?

Non ancora. Coi colleghi del reparto a volte ci confrontiamo. Di notte ci scriviamo su Whatsapp: hanno un medico paziente. E il giorno dopo, martedì 7, hanno voluto verificare eventuali regressioni, ma il primo prelievo non ha dato i risultati sperati.

Anticorpi pigri...

Ho cominciato una terapia con la calceparina, l’antitrombotico che impedisce la microcoagulazione, per evitare che tra l’ottava e la decima giornata potesse succedere il peggio.

Cosa si rischia tra l’ottavo e il decimo giorno?

L’insufficienza respiratoria.

Essere medico aiuta ad affrontare meglio la malattia?

Macché: è peggio! Centellinavo il tempo. Quando è arrivata l’ottava giornata, l’inizio delle ore decisive della malattia, tremavo: sentivo di rischiare la pelle, e non sapevo cosa stesse accadesse nel mio corpo.

Sul piano morale stare in reparto aiuta?

Ho visto che c’erano nove persone col Covid, che avevano superato la fase importante della malattia. E allora avevo preso coraggio.

Però?

Una notte, mentre stavo male, due persone, un’ottantenne e un’ultranovantenne che era la nonna di una delle mie segretarie in uno degli studi medici, sono morte accanto a me: una a destra, l’altra a sinistra.

Come si vive il decesso in un reparto Covid?

In quei momenti pensavo che il Covid uccide queste persone indifese, una generazione fondamentale: cancella la nostra memoria storica in un battito. E osservavo questi due cadaveri, uno a destra e l’altro a sinistra, e pensavo che stavano lottando contro la mia stessa patologia.

Non ci si abitua alla morte?

Mai. Ho visto il lenzuolo bianco e ho pensato che voglio battermi per una sanità più democratica. Non è possibile non riuscire a reperire delle mascherine: in ospedale ci arrivano grazie alle associazioni di volontariato, ma è normale che si debba aspettare la gente perbene?

Cosa insegna il virus?

L’importanza di ripensare a un sistema sanitario nelle case dei pazienti, una vera e propria medicina del territorio. Ce lo insegna, questa pandemia: non è possibile lasciare i pazienti a casa per 10 giorni dicendo «tieni d’occhio la febbre».

Qual è l’alternativa?

Vanno allestiti dei team, infermiere e medico, come in provincia di Piacenza, coordinati da Dipartimenti veri d’igiene e prevenzione territoriale. E il controllo nelle case dev’essere quotidiano, perché a un 80enne non basta un saturimetro: non può bastare. Sa cosa è inaccettabile?

Cosa?

Il mio compagno di avventure, qui in ospedale, arrivato in stanza 15 minuti dopo di me, prima era stato 10 giorni a casa in attesa d'un tampone. Dieci giorni. Perché arrivare a questo punto?

Dottore, come s’è infettato?

Visitando pazienti con sintomi lievi. L’ho fatto, a Polla, e lì, probabilmente, ho preso il virus, ma non è sicuro. Con questo Covid, nulla è sicuro.

Lei è un medico “pianista”, col pallino della musica: come suona il “suo” Covid?

Ho riascoltato una canzone bellissima, che m’ha riconciliato col mondo: “ Confessioni d’un malandrino ”, di Angelo Branduardi. E la mattina di Pasqua in stanza si sentiva una canzone venir da fuori: “ La vita è adesso ”, di Claudio Baglioni. Parole profetiche, ora più che mai.

Cosa farà quando sarà guarito e tutto sarà finito?

Riabbraccerò i miei figli, che mi mancano. E stapperò una bottiglia di spumante con le persone che amo. Ce lo meritiamo, di riapprezzare la capacità di guardarci negli occhi mentre sorseggiamo un buon bicchiere di spumante.

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