risorgimento nel salernitano<br />seconda puntata

Cilento, Alburni e Diano Luoghi e cronache della rivoluzione

Francesco II accettò di concedere la costituzione nel giugno del ’60, dopo solo la disfatta siciliana. Pensava di salvarsi e invece diede un colpo mortale alla sua dinastia, sgretolando la capacitá di resistenza della Stato e dei suoi fedeli. A Salerno si vide subito il contraccolpo. I vecchi e devoti capi delle istituzioni borboniche come l’Intendente di Salerno Morelli e il suo vice di Sala, Calvosa, furono sostituiti da uomini del governo costituzionale insieme a tanti altri quadri dello stato. Tutto questo avveniva in uno stato di incertezza e crescente confusione, delegittimando completamente le istituzioni e rendere così più aggressivi il proselitismo e la propaganda dei liberali. La polizia fu attaccata ed insultata a Sala e in provincia. La gendarmeria era paralizzata e, cosa più grave per i sostenitori del Re, gli aggressivi nemici liberali si impadronivano di molte leve dello stato sotto i loro occhi increduli e spaventati. Tutti i nuovi sindaci erano infatti liberali moderati, come Sergio Pacifico (che prese il posto di Emiddio Lanzara) a Salerno e Pasquale Atenolfi a Cava dei Tirreni.

• Lo stesso tra i funzionari. Il nuovo intendente era infatti il moderato liberale Domenico Giannattasio. Ancora più pericolosa era la questione delle forze paramilitari. Infatti venne sciolta la Guardia Urbana costituita dai sostenitori del Re e in tutto il salernitano (e il Mezzogiorno) veniva costituita la Guardia Nazionale, una classica istituzione liberale di cui si impadronirono immediatamente i nazionalisti unitari. In paesi come Teggiano e Rutino, Sala e Campagna, la Guardia diventò il vero pilastro dei rivoluzionari più radicali che si armavano con le risorse del Re. A Napoli, nel frattempo, moderati cavouriani e radicali garibaldini litigavano continuamente e avevano dato vita a due Comitati indipendenti e concorrenti tra loro. Tra i primi a Salerno c’erano Belelli, Bottiglieri e Luciani. Furono però i loro rivali, gli "azionisti" i motori della prima rivoluzione garibaldina. Nei primi giorni di agosto arrivavano dalla Sicilia, spediti da Garibaldi, i salernitani dei Mille, Magnoni e Vinciprova, Santelmo e Del Mastro. Il 16 agosto iniziò in Basilicata la rivoluzione lucana.

Due giorni dopo Garibaldi sbarcò in Calabria e iniziò la sua marcia trionfale accompagnato dalle rivoluzione che scoppiava in tutte le province calabresi mentre si sfasciavano ingloriosamente i corpi borbonici. Anche nel salernitano si apprestava la rivolta, decisa dalla sinistra, dagli uomini del comitato d’azione guidato dal fanatico e attivissimo Giovanni Matina di Teggiano. In realtá tutto il movimento liberale si mobilitò per la rivoluzione salernitana. La decisione fu semplice. La rivoluzione doveva iniziare in quelle aree interne (il Cilento, gli Alburni, il Vallo di Diano) che da sempre erano la roccaforte del ribellismo e del liberalismo salernitano. Alfieri d’Evandro, un dirigente casertano che aveva seguito Matina, scriveva che non vi è paesucolo quivi che non conti né suoi fasti un governuccio provvisorio in varie epoche. Inoltre tra Salerno e Nocera era concentrato tutto l’esercito borbonico forte di ben 40.000 uomini che poteva fare a pezzi i rivoltosi.

A Matina furono affiancati un ufficiale professionista, il modenese Luigi Fabrizi e a Lucio Magnoni fu affidata l’organizzazione della rivolta nel Cilento. Il 27 agosto del 1860 questo gruppo si riunì negli Alburni, a Sant’Angelo a Fasanella, proclamò la decadenza della dinastia borbonica, si recò in chiesa a celebrare il Te Deum di rito e poi diede iniziò alla rivolta. Nel giro di tre giorni si formarono sette colonne e si misero in armi 12 o 13 mila persone. I gruppi di rivoltosi cominciarono a girare avanti e dietro per i paesi e villaggi del Cilento e degli Alburno, del Vallo di Diano e del Tangaro, dove venivano formati governi provvisori che si affiancavano ai sindaci, furono arruolati volontari e demoliti i simboli della dinastia borbonica. L’obiettivo era concentrare le forze a Sala dove si dirigeva Garibaldi. I funzionari del governo borbonico erano attoniti. Il sottintendente di Vallo Giannelli scriveva a Salerno il 31 agosto che l’insurrezione può dirsi esservi divenuta generale e che né lui né i suoi colleghi potevano farci nulla. Diari e resoconti dell’epoca descrivono un clima entusiasta che paralizzava i quadri borbonici. Inoltre la compattezza della borghesia locale finiva per esercitare una funzione egemone sulla societá dei paesi e dei villaggi del Cilento e delle zone limitrofe.

Il manifesto rivoluzionario del radicale Matina vantava che alla testa delle colonne e dei governi provvisori c’erano i più ricchi, dotti ed influenti uomini della provincia ed erano accompagnate da tutt’i i galantuomini dei rispettivi paesi. La rivoluzione però era misurata. I rivoltosi volevano evitare qualsiasi spargimento di sangue o, peggio, intimorire la societá e renderla fredda verso l’obiettivo comune. Moderati e a radicali, infatti, agitavano insieme lo slogan Garibaldi dittatore e re Vittorio Emanuele. L’attenzione all’ordine e al rispetto della proprietá privata (come aveva del resto indicato Garibaldi all’inizio dell’impresa) era fanatica. Il cilentano De Angelis, al comando di una colonna, ricorderá che lungo tutta questa marcia mi studiai, ora con le buone esortazioni ora con le minacce, di far rispettare le famiglie e gli averi. Insomma le lezioni passate erano state apprese, questa era una rivoluzione, ma una rivoluzione disciplinata, liberale e costituzionale. La nuova patria italiana non doveva avere nulla di giacobino. L’unica eccezione avvenne a Sanza, dove i volontari cilentani giustiziarono Sabino La Veglia e gli altri capi degli urbani che avevano guidato l’eccidio del drappello di Pisacane tre anni prima. Il 30 agosto i rivoluzionari arrivavano a Sala, il sottintendente si dimise e, con gli altri funzionari (che non vennero licenziati, anzi confermati nel loro ruolo) firmò l’atto di cessione dei poteri. Il tracollo delle istituzioni borboniche era stato impressionante, la resistenza praticamente nulla. La giunta rivoluzionaria provinciale si insediò a Sala il 30 agosto: Giovanni Matina era prodittatore, Antonio Alfieri d’Evandro segretario, Antonio Carrano cassiere, affiancati da un esecutivo dove c’erano i capi storici del movimento liberale e dei democratici radicali, gran parte dei quali erano anche i notabili più rappresentativi dei propri comuni.

Nel frattempo la marcia di Garibaldi si era trasformata in una trionfale passeggiata. Il generale era giunto a Sapri e di lì si dirigeva nel Vallo di Diano mentre l’insurrezione e la confusione erano generali: un giornalista inglese che lo precedeva, Peard, fu scambiato per lui, ci prese gusto, mettendosi in movimento tra Auletta e gli Alburni con banda al seguito e conseguenti telegrammi degli attoniti funzionari del re. Fabrizi, nel frattempo, aveva costituito con i volontari salernitani un Brigata mobile che sarebbe entrata nell’esercito meridionale di Garibaldi, collocata proprio tra Auletta e il Vallo. Garibaldi arrivò infine a Sala accolto da imponenti dimostrazioni popolari. A Padula l’unico corpo borbonico intatto, quello di Cardarelli, si era arreso senza sparare un colpo e i suoi uomini furono internati nella Certosa. Infine il generale giunse ad Auletta e poi a Salerno accolto dalla popolazione e dalla Guardia Nazionale. Non si sapeva di cosa accedeva a Napoli fino a quando giunsero dalla capitale i delegati del governo. Il re aveva lasciato la cittá per chiudersi a Gaeta.

* Docente di Storia contemporanea facoltá di Lettere e Filosofia dell’Universitá di Salerno
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