La sera maledetta

1980, quando la tragedia era qui da noi

Il 23 novembre un'onda sismica di magnitudo 6,5 sconvolse Campania e Basilicata distruggendo decine di paesi. Le bare non bastavano per tutte le vittime

SALERNO. I pennini del sismografo dell’Osservatorio vesuviano vibrarono come schegge, finirono fuori scala e i tracciati si interruppero. Erano le 19,35 di domenica 23 novembre 1980. Un’onda sismica del settimo-ottavo grado della scala Mercalli, equivalente a una magnitudo fra 6,5 e 6,8 della scala Richter, scosse l’Appennino meridionale, tra Campania e Lucania, con epicentro l’area di confine tra le province di Avellino, Salerno e Potenza. Dalle viscere di una terra, da sempre “ballerina”, si sprigionò un’onda di una violenza catastrofica, pari allo scoppio di un milione di tonnellate di tritolo. Ottanta, interminabili, secondi da incubo: sufficienti a far crollare edifici e a spazzare via interi paesi. A Salerno i vigili del fuoco il primo intervento lo effettuarono in casa propria, abbattendo alcune strutture crollate per portare gli automezzi all’esterno. Il prefetto Giuseppe Giuffrida per uscire di casa fu costretto a sfondare la porta del suo appartamento e da piazza Amendola cominciò a organizzare i soccorsi.

Il caos. In città fu subito il caos, la gente impaurita si riversò in strada, le linee telefoniche andarono in tilt, funzionavano solo le radio delle forze dell’ordine e quelle dei radioamatori rivelatisi poi preziosissimi. Alle 20,42 si avvertì un’altra violenta scossa, questa volta ondulatoria. Cominciarono ad arrivare le prime scarne e terrificanti notizie: crolli e vittime erano segnalati a Lancusi nella Valle dell’Irno. A Nocera Inferiore si era sbriciolato un palazzo di nove piani in via Gabola. A Siano era data per certa la morte di tre persone in un bar-ristorante, mentre a Cava de’ Tirreni era venuto giù un edificio e anche lì si temeva che vi fossero vittime. Da Baronissi veniva segnalato il crollo di due palazzine popolari, vi abitavano 12 famiglie, sei corpi erano stati già estratti, ma altre 60 persone erano ancora sepolte sotto le macerie.

All’alba le dimensioni della catastrofe cominciarono a delinearsi in tutta la loro gravità, in particolare nell’Alto Sele: Laviano, Colliano, Santomenna e Castelnuovo di Conza erano stati falcidiati. Crollate le case fatiscenti dei contadini, ma anche quelle degli emigranti tirate su a stenti, ma senza alcun rispetto per le norme antisismiche.

I soccorsi. Là dove erano arrivati i soccorsi erano giunti in ritardo, in decine di paesi si scavava ancora a mano in un panorama di rovine. L’organizzazione era precaria, impreparata a far fronte alla vastità dell’area colpita. A mezzogiorno dalla Prefettura venne fornito il primo dato ufficiale: 167 morti e 14 salme ancora da recuperare. Ma era una cifra “burocratica”, in forte contrasto con quelle in possesso dei soccorritori, dei volontari e dei cronisti giunti sui posti della sciagura. Solo all’ospedale di Oliveto Citra, dove era crollata un’ala della vecchia struttura per fortuna sgomberata una ventina di giorni prima, si contavano già 32 cadaveri di persone che vi erano giunte gravemente ferite. Molti erano bambini. Per tutta la notte i medici avevano lavorato all’aperto, sotto un lampione, per soccorrere i feriti che giungevano da Santomenna, Laviano, Teora, Calabritto, Palomonte e Buccino. C’era un disperato bisogno di un gruppo elettrogeno, di una radiografia mobile, di sangue, di antitetanici e di altri medicinali che ormai scarseggiavano.

I sepolti vivi. Cominciarono ad affiorare le storie dei “sepolti vivi”. Michele Piserchia di Laviano era rimasto per dieci ore sotto le macerie, fino a quando era riuscito a liberarsi da solo. Poi, sempre da solo, aveva scavato la moglie, il figlio di 8 anni e la madre settantenne ancora vivi. A Ricigliano i morti erano già sette, ma altre 20 persone erano ancora sotto le macerie. In mattinata erano giunti 150 bersaglieri da Persano e una trentina di scout da Salerno. Castelnuovo di Conza era distrutto: 150 persone non rispondevano all’appello. Il parroco aveva celebrato messa all’aperto e benedetto i feriti. In mattinata arrivarono 85 militari e dopo cinque ore di lavoro fu estratta dalle macerie, ancora viva, Maria, una ragazza di 11 anni. Poi furono salvate altre 10 persone. Sotto le macerie si sentivano ancora lamenti, ma alla sera le operazioni erano destinate a fermarsi, per mancanza di fotoelettriche. A Eboli, alle 12.58, Raimondo Paolini e sua figlia Wanda di 13 anni furono recuperati morti in un edificio crollato in via San Giovanni. All’ospedale, dove erano affluiti centinaia di feriti dell’Alto Sele, anche la tendopoli allestita all’esterno dall’Esercito era già insufficiente.

La conta dei morti. Otto i morti accertati ad Acerno, di cui due spirati in ospedale. Quattro a Campagna. Qui il terremoto aveva sventrato il municipio e fatto crollare la facciata del Duomo, gli sfollati avevano trovato ricovero in tende allestite nel campo sportivo e in bus della Sita. A Cava de’ Tirreni, nel crollo in via Atenolfi, erano morte una nonna con le due nipotine, ma si era sfiorata di un soffio la tragedia in cattedrale. Per fortuna la messa serale era stata anticipata di un’ora. Nove i morti ad Angri, dove si era staccato il prospetto anteriore della chiesa seppellendo un gruppo di tifosi intenti a discutere del pareggio interno col Terzigno. Nel frattempo erano saliti a sei anche i morti a Siano, mentre a Nocera nel crollo della stabile di via Gabola erano periti due fidanzati prossimi alle nozze. Una donna, Gelsomina Coppola, si era salvata per un indecifrabile disegno del destino: era scesa in strada a chiamare il figlio undicenne per la cena, alle sue spalle il palazzo, dove aveva lasciato il marito, la figlia, la nuora e due nipotine, si sgretolò. Nel pomeriggio, alle 17, la Prefettura aggiornò la conta dei morti: solo nell’Alto Sele erano circa 600. Agli Ospedali Riuniti di Salerno non c’era più spazio, pure i corridoi erano pieni di feriti giunti da Baronissi, Ricigliano e anche dall’Irpinia. Stessa scena all’ospedale di Torre Angellara, dove una cronista raccolse l’imprecazione di Erminia Scamorza, una sopravvissuta di Laviano: «Dio che hai fatto! Cercavo un lavoro per i miei figli e tu me li hai sistemati una volta e per sempre. Con che coraggio, Cristo Gesù, con che coraggio...». Scoppiava anche l’ospedale di Battipaglia, dove l’esercito aveva montato 17 tende nel piazzale esterno per sistemare altri feriti giunti da Laviano, Acerno e Caposele.

Sei erano morti per sindrome grave da schiacciamento. Il giorno che seguì fu ancora più triste, le speranze di estrarre i sepoltivi vivi dalle macerie si affievolirono con il passare delle ore. Affluirono migliaia di volontari da tutt’Italia, si continuò a scavare nel mentre si accudivano i sopravvissuti e si seppellivano i morti. Mancavano persino le bare e anche i cimiteri si rilevarono piccoli. Alla fine in provincia di Salerno il bilancio ufficiale fu di 674 morti e di 2.468 feriti

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