Una Public history per Salerno

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Più volte dalle colonne di questo giornale ho fatto riferimento ad una disciplina umanistica che si chiama Public history. Il termine è inglese perché questa pratica di riordino della memoria collettiva è cominciata agli inizi degli anni Ottanta negli Stati Uniti. Tradotto letteralmente in italiano sarebbe “Storia pubblica”. Ma visto che proprio nel campo della ricerca storica la parola “pubblico” in Italia è associata all’azione dello Stato, bisognerà accettare una diversa accezione: “Storia in pubblico”. Ciò consentirebbe di evitare qualsiasi fraintendimento relativo all’oggetto della narrazione: un racconto divulgativo che sia in grado di congiungere la ricerca scientifica con la memoria collettiva restituendo senso al succedersi degli eventi, positivi e negativi, vissuti da una specifica comunità, sia essa locale o nazionale. I Public historian, ossia gli attori della divulgazione, si pongono l’obiettivo di organizzare la raccolta dal basso di documenti in possesso di quanti intendono contribuire alla promozione e alla salvaguardia di una storia comunitaria a partire dalle memorie familiari e personali. Provo a fare un esempio.

Immaginate se, magari con un appello reiterato da parte di questo quotidiano, si chiedesse alle famiglie, alle imprese, alle associazioni, ai sindacati, alle chiese, ai partiti, alle istituzioni e ai media della città di Salerno di recuperare tutti i materiali più significativi che hanno caratterizzato i diversi passaggi della storia del Novecento: fotografie, lettere, diari, oggetti di design, elementi d’arredo, capi d’abbigliamento, filmini, manifesti, trasmissioni televisive (per esempio Telecolore ha un vastissimo archivio di immagini, a partire dalla metà degli anni Settanta, che potrebbe essere catalogato e valorizzato). Ora, sempre facendo ricorso all’immaginazione, pensate se accanto a questa raccolta si organizzasse, con l’ausilio delle scuole salernitane, una rete di cercatori di memoria (diretti da storici professionisti) il cui obiettivo sarebbe video registrare le testimonianze e le vicissitudini della popolazione più anziana: migliaia di studenti che chiedono ai propri nonni, ai propri genitori e a decine di parenti di raccontare la propria vita a Salerno e come essa sia cambiata a causa del mutare delle condizioni storiche (il fascismo, la guerra, la ricostruzione, il miracolo economico, la contestazione e la strategia della tensione, i magnifici anni Ottanta, la crisi della prima Repubblica e l’Italia berlusconiana). È probabile che una simile chiamata alle armi non si realizzerà mai o che l’appello non desti la curiosità e la sensibilità dei cittadini. Eppure, continuando ad abusare della vostra fantasia, vi chiedo un ultimo sforzo. Supponete, invece, che l’utopico progetto diventi realtà e che i cittadini si lascino affascinare dalla possibilità di poter contribuire direttamente al racconto di un secolo di storia salernitana. Cosa accadrebbe? Nel giro di qualche mese il materiale raccolto, selezionato e catalogato darebbe vita ad un museo del Novecento salernitano. Un museo che potrebbe essere suddiviso in varie sezioni cronologiche e tematiche: la famiglia, la città, le istituzioni, le imprese, il lavoro, il commercio, l’artigianato, la moda, l’arte, la politica, i protagonisti della scena pubblica e così via. Non dovrebbe trattarsi, tuttavia, del solito museo/deposito perché l’intera esposizione potrebbe essere digitalizzata e trasposta pari pari su un portale web in cui la replicazione documentale potrebbe essere l’occasione per stimolare la nascita di un social network della memoria (scaricabile in app sullo smart-phone) in grado di coinvolgere anche i salernitani che non vivono più in città ma che non hanno reciso le radici con il luogo di nascita. Questo sogno ad occhi aperti potrebbe diventare realtà (divenendo anche uno strumento di attrazione turistica e l’opportunità di lavoro intellettuale qualificato) solo se le istituzioni territoriali, insieme all’Università, fossero capaci di coordinarsi per indirizzare i frammentati investimenti culturali verso un unico obiettivo programmatico che abbia una prospettiva di lungo respiro, lontana dalla logica del mordi e fuggi.