Un viaggio a Trieste

Trieste

Ascoltando e osservando le persone in viaggio ti accorgi di dinamiche sociali di cui immagini l’esistenza ma che di colpo diventano realtà costringendoti a riflettere sull’Italia contemporanea. Ero in aeroporto a Napoli in attesa dell’imbarco. Tutti silenziosi. Sembrava di essere in un film di spie: sguardi netti, parole soffuse, mani rigide ma pronte all’uso. No, non preoccupatevi l’unico uso plausibile era lo smanettamento tra tablet e smart phone. Insomma, un’aria da gentleman inglesi. All’improvviso questa atmosfera ovattata, abbasta surreale in quel di Capodichino, viene rotta da un lord che, con il suo Samsung Galaxi S6 Edge, urla al suo interlocutore una frase inequivocabile, con un tono che non ammette replica: “Dincello all’assessore che non ci stanno problemi. Noi siamo in grado di risolvere qualsiasi complicazione senza importunare nessuno. Se c’è bisogno di pagare, paghiamo, ma poi dopo non venissero a piangere da noi che non possono finire il loro lavoro. Tu mi capisci, se poi succede qualcosa, qualche incidente sul cantiere poi con chi se la vogliono pigliare”. Il tale in questione non era vestito come un lazzaro del Seicento, anzi a dire il vero il suo look elegante, e allo stesso tempo casual, era davvero raffinato. Ad attenderlo al gate c’erano sei persone. Una era vestita alla sua stessa maniera, ma in modo più dimesso; gli altri cinque erano capeggiati da un uomo intorno ai sessant’anni che aveva tra le mani un’agenda da cui non si staccava mai.

Vicino a lui c’era il figlio, almeno così mi è parso per la somiglianza fisica, che riceveva telefonate e parlottava poi con i restanti tre, il cui ruolo - si capiva dall’atteggiamento remissivo - era quello dei sottoposti al padre e al figlio, i quali, a loro volta, pendevano dalle labbra dei primi due e, tutti, dall’uomo con il Samsung. Intanto lo Stuart annuncia l’avvio della procedura d’imbarco. L’aereo che sto prendere è diretto a Trieste. Supero il varco e salgo sul bus che ci conduce all’aereo. Non so come, non so perché, mi ritrovo in mezzo ai sette che stanno discutendo tra loro. Scopro così che il più anziano è “nu masto”. Ha la sua bella ditta individuale affidata alla cure del figlio con tre dipendenti e sta “salendo” a Trieste per realizzare la rete elettrica e quella idraulica in un locale di proprietà dei due “signori eleganti”. Deve essere proprio una cattedrale se la cucina da sola può arrivare a consumare 120 kilowatt/ora. Il discorso poi si sposta sugli arredi: l’uomo casual vuole sapere se hanno portato i tavoli, se sono stati montati i condizionatori, se le mattonelle per il bagno sono sufficienti, se gli specchi sono stati appesi e come sono stati fissati. Dal che si comprende che quello che sembra un capo mastro è un vero supervisore che sale e scende da Trieste con la sua squadra di operai per seguire l’investimento del committente. Mentre stiamo salendo sulla scaletta dell’aereo arriva una telefonata al capo della comitiva che risponde solamente: “Vabbuo!”. Poi, rivolgendosi agli altri, li informa che ad attenderli ci sarà un certo Salvatore. Atterrati a Trieste ci ritroviamo nuovamente vicini nel bus che ci conduce al settore arrivi. Appena il duce della spedizione accende il cellulare immediatamente arriva uno squillo. Vede il numero di telefono e fa una smorfia d’insofferenza verso gli amici che sogghignano. Risponde: “Assessore bello, come state? ... Voi lo sapete che noi stiamo a vostra disposizione. Voi comandate e noi eseguiamo, ma se ci diamo da fare deve uscire pure la nostra parte, pure noi siamo figli di Cristo” e ride. Usciamo e come previsto c’è Salvatore ad attenderli con un pulmino. Mi avvio alla fermata dei bus diretti a Trieste. Sono ora con due ragazzi che hanno preso il nostro stesso volo. Sono appena laureati e sono stati chiamati per un colloquio di lavoro a Monfalcone. Li guardo, sembrano davvero complici. Al momento di scendere alla loro fermata mi hanno salutano come se ci conoscessimo da sempre. Finalmente mi sono sentito leggero.