Un uomo semplice e di immensa generosità

Scrivere in morte di un amico è sempre faccenda piuttosto complicata. Intanto perché è impresa disumana ottemperare al protocollo dell’obiettività, quando c’è il rischio di cadere nell’agiografia. E poi perché la fine di un legame forte che dura dalla prima gioventù espone alla possibilità che la commozione travolga ogni approccio razionale ai ricordi che si affollano nella mente. Don Luigi Zoccola - che valde mane (di buon mattino) ieri ha lasciato questo mondo - è stato un sacerdote molto amato dal popolo. Non solo nella comunità che per 40 anni fu la sua parrocchia (San Felice e Santa Maria Madre della Chiesa in Torrione Alto) ma in ambito cittadino. E non credo che la spiegazione risieda tutta nel fatto che in 40 anni don Luigi avrà sposato mezza Salerno e amministrato la prima comunione a migliaia di ragazze e ragazzi nella millenaria chiesetta di San Felice in Felline. Don Luigi non era quello che si dice un “formalista”. Per cui può darsi che in qualche occasione sia andato oltre le regole del diritto canonico. Non era ligio alle procedure e, per piccoli particolari, neppure alla liturgia. Egli stesso ne era consapevole, tant’è che una volta lo ha riconosciuto, additandomi benevolmente come un meticoloso osservatore delle regole liturgiche. A volte dava l’impressione che certe regole gli stessero strette, per cui se ne sfilava, richiamandosi al loghion di Gesù riportato nel vangelo di Marco “che il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”. La gente lo amava perché gli appariva un prete che non poneva barriere all’approdo religioso. Ma certamente non solo per questo. Don Luigi non era quello che si dice un gran parlatore. Non era mai schematico né prevedibile nelle catechesi domenicali. Prediligeva il discorso semplice, teologicamente ortodosso, ma aperto alla complessità della modernità. Ma la ragione ultima per la quale la gente lo amava (e se ne è avuta prova persino sui social) era il suo stile di vita. Don Luigi era ciò che predicava. E chi lo conosceva da vicino non vedeva fratture tra la sua vita e i precetti evangelici. Nei rapporti personali il suo parlare era semplice, chiaro e univoco, conforme al loghion evangelico in Matteo: “il vostro parlare sia sì, sì no, no”. Persona schietta e diretta, rifuggiva dal pour parler e dalla diplomazia. Ma è sul piano dell’agape fraterna che egli aveva tradotto in comportamenti l’inno alla carità della Prima Lettera paolina ai Corinzi, là dove si dice che “la carità non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto”. Don Luigi era uno che solo se non aveva si rifiutava di dare. Una volta è stato visto girare per intero l’offerta della Messa a un bisognoso che gli aveva bussato alla porta. Era uno che prendeva alla lettera la parola di Cristo (ancora capitolo V di Matteo) a “dare anche il mantello a chi volesse prendersi la tunica”. Un Natale mi raccontò il profondo sconcerto provato nel riconoscere un parrocchiano che aveva dormito all’addiaccio nella capanna del presepe allestita davanti alla chiesa. Questo era don Luigi, capace di ricambiarti una modesta offerta di Natale con mezzo agnello e 5 litri di buon vino. Alcuni anni prima di lasciare la parrocchia (un addio doloroso che forse non seppe spiegarsi e condividere) aveva messo mano anche all’avvio del progetto di costruzione della nuova chiesa parrocchiale. Ma ormai per il progredire della malattia non c’erano più le forze fisiche, semmai ci fosse stata la capacità organizzativa, per affrontare quell’impegno troppo oneroso e complesso. Sicché oggi, quando durante la Messa esequiale il celebrante alzerà il tono della voce per ricordare ai credenti che con la morte la vita non è tolta ma cambiata, gli verrà una voglia pazza di gridarci: “non piangete amici. Il bello comincia ora. E mi è stato confermato che non finirà più”.