Un tempo li chiamavano emigranti

nuovi migranti

Spesso si parla della migrazione dei meridionali come di una maledizione a cui siamo condannati dal sottosviluppo di una terra che non riesce a creare opportunità di lavoro. Per lungo tempo, la classe dirigente liberale e quella democristiana l’hanno ritenuta una soluzione che mentre diminuiva la pressione demografica aumentava le possibilità di collocazione di chi rimaneva. Tuttavia, quando lo svuotamento di risorse umane superava una certa soglia si determinava un impoverimento della popolazione attiva. Rimanevano, soprattutto nelle aree interne, anziani e bambini ingessati in una perdurante stagnazione economica. Dagli anni Sessanta in poi i giovani di queste plaghe sono cresciuti con la consapevolezza che prima o poi sarebbero dovuti andare via, come era accaduto ai nonni e ai padri. Ma questa volta non andavano a lavorare, avevano la possibilità di studiare nelle università della propria o di altre regioni per tornare con un titolo in tasca. La maggior parte, però, dopo aver compiuto gli studi fuori sede, nonostante i buoni propositi, non rientrava. L’impatto con la modernità, quella vera e non il riflesso che arrivava in periferia, stravolgeva i piani inziali affascinandoli con le luci della civiltà industriale, certamente non paragonabile all’immobilità delle comunità rurali e pastorali. A differenza dei loro nonni e padri, si staccavano dalle origini contestandole: mentre quelli vivevano miseramente nei paesi in cui si trasferivano, per mandare a casa tutti i risparmi, che diventavano parte dell’economia paesana, consentendo ai figli di studiare senza dover lavorare; questi si integravano e più che perdere l’inflessione dialettale cedevano quote d’identità nella speranza di essere accettati, spezzando quella radice avvelenata.

Ricordatevi di “Rocco e i suoi fratelli” e avrete la sintesi plastica di questa dimensione del prima e del dopo. La nuova migrazione, tuttavia, ha messo in discussione entrambi i paradigmi. Chi si realizza, anche se decide di rimanere all’estero, sente l’esigenza di voltarsi indietro senza rimanere pietrificato. Molto lo si deve all’accelerazione dei mezzi di trasporto e alla possibilità di mantenere salde relazioni attraverso la rete digitale. Noi giochiamo con applicazioni tipo WhatsApp, facciamo i gruppi, inviamo smile ma vi assicuro che è il mezzo migliore per sentire amici e parenti ormai lontani o per comunicare con colleghi sparsi in decine di paesi. Basta una rete wi-fi per rimanere sempre in contatto. L’età media dei nuovi migranti si è alzata. Spesso si laureano vicino casa ma poi, sempre più spesso, dopo un dottorato o un master, cercano soluzioni altrove essenzialmente per due motivi: per non sottostare al giogo di un’accademia chiusa e provinciale e per guadagnare la giusta remunerazione rispetto al grado formazione scientifica raggiunto. Conosco almeno un centinaio di ragazzi tra i trenta e i quarant’anni che hanno intrapreso questa strada con successo. Se a qualcuno di loro domandi: “Perché non rientri in Italia? Con la tua specializzazione puoi lavorare dove vuoi”; ti rispondono: “Stai scherzando?! A fare che? E poi per essere pagato quanto un operaio qualificato in qualsiasi altro pese del mondo?”. Si è stratificata in loro un’immagine dell’Italia incapace di cogliere le opportunità della globalizzazione, a cominciare dalla questione dei migranti: un popolo che invecchia e che non vuole più sporcarsi le mani con certi mestieri dovrebbe, in prospettiva, aprire la società all’ingresso di nuove forze, naturalizzandole sui principi costituzionali e non sulle tradizioni antropologiche, per ringiovanire la popolazione attiva e ridare fiato all’economia produttiva. Ma se da noi arriva un laureato o un agricoltore o un artigiano o un commerciante in fuga dalla propria terra a bordo di un barcone è solo un povero Cristo da ingiuriare o al massimo da aiutare con qualche bottiglietta d’acqua prima di essere rinchiuso in un centro di accoglienza. Questo è il nostro provincialismo deglobalizzato, la paura di dover spartire il benessere con ospiti indesiderati. E se scoprissimo, invece, che inserendoli nella vita nazionale, con diritti e doveri, ci aiuterebbero ad uscire dalla crisi? I bacchettoni razzisti possono dormire sogni tranquilli tanto nessuno vuole restare in Italia. Arrivano gridando: “Germania, Germania” e di questo passo, a causa della nostra miopia, l’Europa sarà la protesi della Repubblica tedesca.