Swingando nel parco della regina

Metti un parco verde. Di un verde brillante e luminoso. Con gli alberi perfettamente potati, l’erba fresca, gli uccellini che giocano a rincorrersi. Metti un palco di legno sui cui swinga una band invitata a partecipare ad uno degli eventi più cool della penisola scandinava, il Jazz Festival. Qualche chiosco di smorbrod e centinaia anzi migliaia di lattine di birra issate al cielo a suonare come campane a festa nei rintocchi vetrati di Jack Daniel’s. Il sole è alto. Sul prato che Charles Bukowski avrebbe detestato perché è roba “da tutti gli altri”, migliaia di danesi ridono, mangiano, giocano, si baciano, dormono, leggono, si concedono una pausa di relax, si abbronzano, spettegolano, bevono, pensano, litigano, si amano, progettano. Su plaid e parei, in costume (perché non godere appieno dei rari momenti di luce è sacrilegio) o in T-shirt, con i genitori molto poco anziani, le comitive di amici, uno stuolo infinito di figli di tutte le taglie (tutti biondissimi, tutti bellissimi, tutti magicamente silenziosi come se fossero stati sedati a suon di xanax) brindano ingurgitando fiumi di luppolo. Felici. Con sul viso un sorriso cucito che non è maschera e che ovunque ti giri intorno, camminando per le strade di Copenaghen, rimbalza di smorfia in ruga, confermando l’ennesimo luogo comune: per le statistiche, i più gioiosi d’Europa sono loro. Perché sono ricchi, sta immaginando qualcuno. Perché loro sì che hanno un vero Walfare, con la sanità ed i trasporti che funzionano ed uno Stato che li assiste in tutto, dalla scelta, seppure giovanissimi, di lasciare il nido familiare per vivere da soli, a quella di figliare come conigli, per alzare la media riproduttiva di mezzo globo. Perché mangiano tutti rigorosamente cibo bio, perché sono green e l’ecologia fa parte del loro Dna, perché vanno in bicicletta e questo rilascia in circolo moooltaaa serotonina. Perché vivono in una città pianeggiante ed a misura d’uomo. Perché nessuno si cura del look e se vai ad un matrimonio in tuta da ginnastica è impossibile trovare qualcuno che storca il naso. Perché se gela e nevica sorridono ed accendono candele che tremano alle finestre per offrire al viandante smarrito un segnale. Perché non sembrano mai incazzati con il mondo (in verità forse non si incazzano mai con nessuno) e sono tutti, ma proprio tutti, così perfetti, da fare immaginare che qualche epurazione della razza per arrivare ad una selezione eugenetica scientifica e rigorosissima sia avvenuta a nostra insaputa al di là delle Alpi. Perché sono tutti magri ed atletici, anche se nelle vene hanno più burro e zuccheri che sangue. Perché in strada c’è sempre un buon odorino di torta appena sfornata. Perché sanno godersi il relax (hanno perfino coniato un neologismo, hyggie, per identificare uno stile di vita easy, very easy) e non hanno vergogna di togliersi le scarpe se hanno i calzini bucati e di ubriacarsi con il loro capo sulla sponda di un canale dove all’improvviso spunta un bar galleggiante. Perché se entrano in un negozio sono circondati da oggetti di design. Da forme e colori avveniristici, da gadget impensabili studiati per ogni esigenza (ed ogni inutilità) destinati a quelle case in cui, causa clima rigidissimo, trascorrono tanto tempo. Perché come i bambini sanno lasciarsi stupire da una banalità e si fanno brillare gli occhi quando giocano con l’Hoptmist ( cercare su Internet e non chiedersi a che serve, perché è un oggetto assolutamente e splendidamente inutile, concepito solo per dare allegria). Ma soprattutto perché civiltà e libertà sono due privilegi di cui inconsapevolmente godono E’ una conquista sedimentata e trasferita mamma-figlio attraverso neurotrasmettitori che evidentemente tradiscono una storia ed una cultura lontanissima anni luce dal nostro mondo. In principio parlavamo di parchi verdi. Era il 10 luglio ed io ero nei giardini di Rosenborg, nel centro di Copenaghen. E’ un castelletto ben lontano dagli sfarzi di Versailles dove la regina e la sua troupe vanno a trascorrere l’estate. All’ingresso ci sono un paio di gendarmi, tutt’intorno un roseto da fiaba di Andersen (che guarda caso è nato proprio qui) e il famoso polmone di verde con migliaia di danesi ubriachi e felici seduti per terra ad ascoltare jazz con i loro bambini afasici ed i loro genitori arzillissimi. Sì, avete capito bene. Un concerto nel parco, a pochi metri dalla casa estiva della regina, tra bottiglie, lattine e braccia alzate al cielo. A Roma non sarebbe mai potuto succedere, per questioni di ordine e sicurezza (v’immaginate un pic nic sulle scale del Quirinale?). Ed è giusto che sia così. Perché nella nostra capitale, dopo un’ora sarebbe scoppiata una rissa tra ragazzini alticci, tappeti di cocci di vetro e chiazze di vomito. A Copenaghen la gente beve. E tanto. Ma nessuno alza neppure la voce, e a terra resta solo erba perché in centinaia armati di sacchi di tela fanno a zig zag tra le famiglie sbracate come il buon selvaggio di Rousseau per raccogliere i rifiuti e rispettare l’ambiente. E a nessuno verrebbe in mente di arrecare disturbo al proprio vicino di plaid, figuriamoci a quella simpatica vecchietta della regina che gira in bici come una pensionata qualsiasi, scegliendo di persona quelle mele rosso fragola lucide e perfette che sembrano uscite da una fabbrica di porcellana. No, non è un luogo comune. I danesi sono gente libera. Ma sono soprattutto un popolo civile, o così sono sembrati a me. Che metto la libertà – mia e degli altri – al primissimo posto. Purchè senza regole, non si trasformi in quell’anarchia lercia e cafona (perdonatemi la citazione dell’aggettivo più gettonato dal nostro sindaco) che una volta atterrata a Fiumicino, dopo qualunque breve pausa di ossigeno nella vera Europa, ti fa accarezzare la voglia di tornare indietro alla ricerca di un gate. O di un danese. Prima di realizzare che l’unico che potrai concederti, è quello del bar, la mattina, con il caffè e latte. E neppure tutti i giorni. Perché noi in bici non ci andiamo. E anche se non ci ingozziamo di tartine al burro, dobbiamo combattere con i rotolini…