Stati Uniti d’Europa per sfidare la globalizzazione

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Debito è la parola intorno a cui ruota l’intera vicenda della crisi europea. Un debito che l’Occidente ha contratto con i cittadini per rinviare il più possibile la perdita dell’egemonia globale. Ma c’è un divario al suo interno: negli Usa la crisi si è presentata come patologia dell’economia di mercato, in cui hanno pesato gli errori di finanzieri avventurosi; in Europa, invece, ha investito gli stati nazionali cresciuti nel secondo dopoguerra grazie ad una maggiore pressione fiscale che finanziava spese sociali universali divenute, poi, privilegi acquisiti a cui è difficile rinunciare. Se aggiungiamo a questi fattori l’invecchiamento della struttura demografica, in cui spicca la marginalizzazione delle giovani generazioni schiacciate culturalmente e psicologicamente dal numero crescente di anziani, e l’incapacità di far fronte alla globalizzazione con una politica di integrazione della forza lavoro immigrata, aprendosi ad un rapporto di collaborazione con i paesi emergenti, abbiamo il quadro del declino italiano ed europeo. La crisi della seconda Repubblica (2011) ha evidenziato i limiti connessi ad un vincolo socioeconomico ormai ineludibile. È inutile riempirsi la bocca con la retorica europeista se non ci si rende conto che l’evoluzione del pianeta spinge il vecchio continente ad abbassare il suo tenore di vita per controbilanciare la crescita di reddito e consumi di nazioni in cui, fino a pochi anni fa, bastavano poche centinaia di dollari per vivere degnamente.

La missione della nuova deputazione europea fa tremare le vene ai polsi: se l’Unione non riuscirà a compiere il necessario salto verso una più compiuta identità continentale/nazionale, trasformando l’euro in una moneta battuta da un’autorità statale sovraordinata, c’è il rischio che l’euroscetticismo diventi il carburante ideologico di una drammatica dissoluzione. Il dato è pressoché sconcertante se si pensa alla probabile crescita elettorale del M5S che gioca il Jolly della crisi e del debito insoluto come chiave di accesso al tavolo della coalizione antieuropea. Si tratta, tuttavia, di un radicalismo introflesso, utilizzato come potenziale minaccia nazionale al ceto partitocratico. Una minaccia che ha la sua ragion d’essere in virtù della debolezza delle liste presentate dal maggior partito di governo. Aver inserito candidati poco autorevoli (tranne in qualche caso e mi riferisco al giurista Giovanni Fiandaca) significa voler puntare essenzialmente sulla rielezione degli uscenti (più qualche nuova leva). All’agitazione dello spauracchio della crisi debitoria, in assenza di uno Stato continentale, le forze europeiste dovrebbero reagire investendo su una squadra di intellettuali in grado di affrontare il mutamento radicale in corso: la competizione globale, la precarietà del lavoro, le questioni turca, russa e ucraina, l’invecchiamento della popolazione, l’immigrazione come risorsa; insomma trovare nuovi principi fondativi per riadattare e modificare quelli esistenti. L’élite europea, purtroppo, spera ancora di riagganciare un benessere ormai svanito, insieme al sogno della certezza e della stabilità. Una difesa strenua tutta concentrata intorno alla battaglia del debito, catalizzatore di tensioni sociali e politiche. Osare vuol dire rinunciare ad alcuni privilegi nazionali per dare via libera ad energie puramente europee. Se questo non accadrà l’Unione diventerà concretamente un’autorità ostile: pur perseguendo la logica del male minore, sarà vissuta come un Moloch che impone dall’alto la sua superiorità. L’austerity ha incrementato sfiducia e dissenso a cui bisogna rispondere con coraggio dando corso al mai tramontato orizzonte federalista: gli Stati Uniti d’Europa sono la meta da raggiungere per sconfiggere la paura.