Semantica della politica 2.0

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Sul finire del Novecento alcune parole indicative della grande trasformazione hanno mutato il loro significato. Un cambiamento determinato dalla globalizzazione che ha intaccato il primato economico e civile della sfera occidentale. La Golden age aveva portato l’Italia nel club delle nazioni industrializzate, ma sul finire degli anni Settanta la classe politica non si avvedeva dell’accumulazione di numerosi elementi critici crisi: la crescita del deficit, il calo demografico, l’urbanizzazione selvaggia, la perdita di centralità del lavoro, il benessere come egoismo sociale, la secolarizzazione della politica, l’affermazione dei diritti individuali, l’assenza di autorevolezza dei gruppi dirigenti, la chiusura psicologica all’innovazione e tanto altro ancora. Scrivono Andrea Graziosi e Giuliano Amato nel libro “Grandi illusioni”: “L’affievolirsi dello sviluppo innescatosi nel dopoguerra e della carica ideale della prima Repubblica e dei suoi partiti cominciò allora a combinarsi con un senso di nostalgia per i luminosi anni appena trascorsi… [si] rafforzò a sua volta un atteggiamento teso a guardare più al presente e al passato che non al futuro… Una parte della società italiana, incluse alcune delle sue componenti progressiste, si accingeva a diventare oggettivamente conservatrice”.

Il cambiamento di fase comporta uno stravolgimento semantico del linguaggio politico: le parole incorporano il divenire storico dando luogo ad un nuovo significante. Ieri riformare voleva dire dare di più a tutti, oggi vuol dire togliere qualcosa a chiunque; ieri lo Stato era garante di diritti universali, oggi è un intralcio all’economia finanziaria; ieri la Costituzione era la regola fondamentale della democrazia parlamentare, oggi è un ostacolo al rinnovamento della Repubblica; ieri la Resistenza era il pilastro della saldezza istituzionale, oggi è fattore di opposizione civile al declino istituzionale; ieri i partiti erano luoghi di pedagogia civile e formazione delle classi dirigenti, oggi sono dispendiosi strumenti della casta; ieri i sindacati erano soggetti reali di tutela dei lavoratori, oggi sono corporazioni che difendono garanzie acquisite da categorie iper-protette; ieri il Mezzogiorno era una potenziale area di sviluppo, oggi è una palla al piede del regionalismo europeo. Ci sono, poi, parole che, negli ultimi vent’anni, sono diventate totem linguisti intorno ai quali si orientano suggestioni collettive: antipolitica, casta, globalizzazione, crisi, declino, neoliberismo, spendig review, precariato, leaderismo, berlusconismo, leghismo, rottamazione, seconda Repubblica e chi più ne ha più ne metta. Del resto l’arrivo di Renzi sulla scena politica ha definitivamente sdoganato non solo la risemantizzazione del linguaggio politico ma anche il gergo giovanilistico dei social network: l’hashtag è più di uno slogan, meno di un programma, sicuramente un cuneo comunicativo che, grazie ai trand topics, assume la dimensione di tormentone pubblico non eludibile. Gli effetti di un simile cambiamento sono ancora difficili da cogliere. Preoccupa una certa superficialità del pensiero corto, ma è anche vero che è diventato un modo di interlocuzione politica trasversale e generalista (come dimostra la trasmissione “Gazebo”). Tuttavia se il frutto di questa ridefinizione semantica è la candidatura di Pina Picierno come capolista del Pd alle europee qualche dubbio mi sovviene.