Salerno, una città del nord

Diversi anni fa curavo, su questo giornale, una rubrica dedicata alla legalità. Era la seconda metà degli anni Novanta. Il tempo è volato. Oggi torno a scrivere per “la Città”. Cercherò di osservare la realtà di una città, e della sua provincia, che negli ultimi vent’anni è profondamente cambiata. Una mutazione che ha seguito la trasformazione antropologica di una nazione sbaragliata, da un lato, da un individualismo qualunquista dilagante, dall’altro, da una crisi economica mortificante. Una miscela esplosiva che rischia di annullare, in un sol colpo, gli enormi passi in avanti compiuti nel corso della storia repubblicana. Serve ancora parlare e scrivere di legalità? Il termine è stato abusato al punto da divenire luogo comune del discorso pubblico nazionale. Ovunque ci giriamo troveremo sempre qualcuno (politici, intellettuali, funzionari, docenti, studenti, pensionati, imprenditori, commercianti, impiegati, casalinghe, ecc…) pronto ad innalzare la retorica della legalità. Una specie di colluttorio civile che rinfresca la bocca dell’oratore di fronte ad un uditorio compiacente. Ci siamo talmente abituati a parlare di legalità che abbiamo perso di vista la Giustizia. E così, mentre discutiamo animatamente durante un corteo o una manifestazione a favore – ancora una volta! – della legalità, la criminalità penetra nel tessuto sociale ed economico del nostro territorio. La nostra retorica è stata a tal punto efficace che pure i criminali si sono legalizzati. Che voglio dire? Decimato il clan D’Agostino, composto prevalentemente da manovali del crimine - dediti allo spaccio di droga e alle estorsioni -, abbiamo voluto credere che Salerno fosse stata liberata dalle spire della camorra divenendo un’isola felice nel bel mezzo di un oceano criminale. E forse è vero, nel senso che da quel momento in poi la città capoluogo è diventata una sorta di Campania offshore, dove proprietari di ambigue società, il cui patrimonio finanziario è spesso derivante dall’accumulazione illecita di beni, investono (direttamente o tramite prestanome) per realizzare, attraverso una colonizzazione del settore terziario, un’imponente riciclaggio di denaro sporco. La fine del clan D’Agostino, oltre all’impegno determinate di forze di polizia e magistratura, è stata segnata da un cambiamento di strategia del potere camorrista: penetrare l’economia locale per controllarne il territorio. Salerno in tal senso assomiglia ai capoluoghi del centro-nord (Latina, Prato, Rimini, Reggio Emilia, Modena, Pavia, Varese, Alessandria, Vicenza e così via) dove le mafie si sono radicate investendo capitali con la complicità di imprenditori e liberi professionisti collusi. Certo i soldi dei clan fanno gola in un periodo di crisi economica (e tuttavia non è una giustificazione), ma vale la pena ricordare che l’ingresso massiccio di capitali sporchi comincia agli inizi del Duemila, bene prima che si potesse anche lontanamente immaginare l’arrivo di una lunga stagione di recessione. Salerno non ha mai avuto una grande tradizione criminale o boss di calibro nazionale in grado di condizionare la società locale. Tolti di mezzo i giovani violenti che, con sparatorie, omicidi e risse, costringevano le forze dell’ordine ad esercitare una costante azione di repressione, è stato facile ristrutturare il contesto criminale individuando faccendieri, intermediari, pseudo imprenditori disponibili a gestire attività terziarie utilizzando capitali di provenienza criminale. Tanto più facile se si pensa che contestualmente si radicava nell’immaginario collettivo nazionale, proprio mentre Caserta e Napoli erano sconvolte dalla furia di “casalesi” e “scissionisti” e travolte da cumuli di monnezza, la visione di un capoluogo meridionale efficiente, orgogliosamente distante dalle miserie degli altri campani.

pubblicato su "la Città" del 29 giugno 2012