Salerno come Dallas. Una Dinasty

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Vi ricordate Dallas? Nel 1980 fu una vera rottura dei palinsesti televisivi. Il pubblico si immedesimava nelle vicende dei personaggi di un jet set globalizzato e immaginario, attraverso un meccanismo di mimesi che stemperava i confini tra vero e verosimile. Ricordate i protagonisti? Il capo famiglia, Jock, burbero ma sapiente; il primogenito, Jr, diabolicamente ambizioso; il secondogenito, Bob, onesto e bello; e poi le loro mogli - Miss Ellie, Sue Ellen e Pam - che conducevano un gioco di complementarità nella realizzazione del dramma in salsa texana. La trama era la banale fiaba che divide buoni e cattivi, condita con un pizzico di introspezione psicologica, una spolverata di empatia per la vita quotidiana e abbondante sentimentalismo da fotoromanzo. Insomma la lirica prevaleva sull’epica e il senso della storia si perdeva, a tutto vantaggio della ruota della fortuna casuale ma regolatrice dei destini personali: la felicità non era più un bene pubblico, ma una fatto privato da perseguire attraverso intrighi e relazioni ambigue. Cosa c’entra Dallas con Salerno? Nulla, in realtà; molto dal punto di vista simbolico. Anche il capoluogo potrebbe aspirare a diventare protagonista di una serie televisiva che racconti crescita e declino di una dinastia locale.

La famiglia Amato proviene da un passato glorioso di economia produttiva legata alla principale fonte di ricchezza naturale del nostro territorio, l’agroalimentare, che è una specie di petrolio campano. Una famiglia potente che, come la maggior parte degli imprenditori italiani, si era legata al partito-stato democristiano, tutore di interessi legittimi e soprattutto, nel Sud, mediatore di generosi finanziamenti pubblici; almeno fino al fatidico 1992 quando, insieme al collasso del sistema dei partiti, crollò anche la Cassa per il Mezzogiorno. Il secondo boom economico, alla metà degli anni Ottanta, fondato sulla miscela di assistenzialismo ed esportazioni a basso costo del made in Italy, aveva reso il marchio del pastificio il vero simbolo di Salerno (proprio come la Parmalat per la sua città). Il brand si affermava passando dalle maglie delle salernitana a quelle della nazionale. Anche la mutazione politica non fermava la cavalcata, sostegno nazionale al centro destra, accordo con il governo locale di centro-sinistra. L’obiettivo era la diversificazione del mercato: da un lato l’indebitamento per trasformare il pastificio in un holding alimentare, dall’altro l’abbaglio di raccogliere capitali freschi con un investimento immobiliare (per recuperare i costi della delocalizzazione). Una simile operazione, però, necessita di molti soldi. C’è bisogno, dunque, dell’aiuto delle banche. E qui si può cogliere un elemento di anacronismo economico: nell’era della globalizzazione finanziaria ci si è affidati ad un politico locale del vecchio corso per mediare con il sistema bancario, sanare i debiti e ottenere il denaro per realizzare lussuosi appartamenti. Una scelta suicida.
  
La figura del mediatore politico ha perso ruolo e consistenza di fronte ai meccanismi privatistici del libero mercato, sprovvisto ormai dello scudo dell’intervento pubblico statale. Gli Amato credevano, probabilmente, di vivere ancora negli anni Ottanta, quando la politica aveva la forza di mutare il corso degli eventi. Paradossalmente sarebbe stato meglio affidarsi ad uno dei tanti faccendieri della Seconda repubblica che navigano tra istituzioni e finanza senza lasciare tracce. Tuttavia, il reciproco scambio di accuse tra nonno e nipote (anche in questa storia c’è un Jr), sta scrivendo la trama di una soap opera tutta salernitana, la quale, più che a Dallas, somiglia a Cento Vetrine, una fiction in cui gli attori recitano talmente male da provocare, spesso, il sorriso dello spettatore.