"Ring" di Manzi e De Cristoforo: il soprendente gioco del teatro

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La difesa dell’opera d’arte di Ilse, ne “I giganti della montagna”, è una battaglia persa: i giganti la schiacceranno senza comprendere la differenza tra lei e il suo personaggio.  O meglio, senza comprendere la differenza tra l’Arte e la sua rappresentazione. La crisi non è solo economia e la decadenza può andare oltre la Storia per toccare il senso più intimo dell’esistenza, la riflessione filosofica su sé e il mondo. Sembrerebbe questa la strada – non certo semplice – scelta da Andrea Manzi con “Ring”,  che Pasquale De Cristoforo ha messo in scena l’altra sera a S. Sofia nell’ambito della rassegna “Il gioco serio del teatro” diretta da Antonello De Rosa. E non è certo un caso se, come nel testo, anche lo spettacolo si apre proprio con le immagini della versione di Strehler dell’opera di Pirandello mixate a Leo de Berardinis, a Carmelo Bene e all’insuperabile marionetta di Totò. E si cita, inoltre, Gatto, Campana, Pasolini. Insomma gli insondabili nessi tra poesia e teatro, in un testo  che l’autore assembla come riflessione teorica per avviare un possibile dialogo sulla parola, sul corpo, e in definitiva sull'arte. Un esperimento, come dice un  brano del testo, per sondare se il male di vivere possa essere l’amalgama di un messaggio creativo. Lo spettacolo era stato scelto per il progetto di Maurizio Scaparro “Il Teatro Italiano nel Mondo” e avrebbe dovuto andare in scena a Firenze come un laboratorio su teatro e lingua italiana. E in effetti i tanti rimandi linguistici, la densa e fitta capacità dialogica, il carattere di esperimento meta- teatrale, la mancanza di trama e personaggi, il richiamo netto ed esplicito all'avanguardia,  erano un invito a nozze per De Cristoforo che in qualche modo ha sfoderato il suo migliore repertorio con la complicità degli attori della sua compagnia: il teatro di strada con due attori sui trampoli, la maschera come segno espressionista, il nido di rose che avvolge il volto di una donna come in un quadro magrittiano, e il San Sebastiano finale di Antonello De Rosa. Tutti elementi già presenti nel testo di Manzi che De Cristoforo è riuscito a rendere “visibili” e teatrali, contraddicendo in fondo, positivamente,  il messaggio nichilista del testo, l’impossibilità di una rappresentazione. “Con questo esperimento, dicono i due attori - medici che giungono in proscenio  in  una sorta di straniamento finale, volevamo verificare se un poeta e un attore  riuscissero a trovare nel profondo delle loro coscienze una comune possibilità di comunicazione, per allargare i loro percorsi creativi. Non ci siamo riusciti. Sappiamo soltanto che entrambi, nello stato di trance, rimpiangevano la vita dalla quale ci chiesero di voler fuggire…”  Ma il  “gioco serio del teatro” alla fine, riesce a  trasformare il "logos" in anime, sia pure, come queste, infelici e vaganti. Qualche rilievo "tecnico":  la chiesa di Santa Sofia è splendida ma l’acustica non si presta alla declamazione e all’enfasi. Forse una più discorsiva  interpretazione  avrebbe giovato. Molta gente, molti applausi.