Regionali: il nuovismo arretrato

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Si favoleggia di un possibile piano B che vedrebbe Renzi e Berlusconi pronti a schierare due candidati alternativi per le prossime elezioni regionali: da un lato sconfessando le primarie, dall’altro distruggendo la già flebile immagine del governatore in carica. Se devo dire la verità, con il rischio di essere smentito, non vedo nessuna via d’uscita. Si tratta, a mio avviso, solo di un po’ di fumo per confondere le idee a quanti, nel Pd, sono rimasti delusi dai risultati delle primarie e a quelli che in Forza Italia temono la sconfitta. In realtà, i dirigenti nazionali del Pd dovrebbero avere il coraggio di confessare di essere stati gabbati dai volponi campani che hanno fatto passare per rottamazione la vittoria a tavolino di un ex funzionario comunista in sella da oltre vent’anni. Qualcuno, ingenuamente, ha pure creduto che il suo principale avversario interno stesse facendo sul serio. Non so se tra i due ci sia stato un accordo ma è ovvio, per chi sa leggere i numeri e i sommovimenti in fase di composizione delle liste, che l’europarlamentare ha smosso le acque e convinto la segreteria nazionale a tenere le primarie mostrandosi come l’uomo della Provvidenza renziana. All’apertura delle urne si è compreso che è bastato fingere di impegnarsi per ottenere il risultato desiderato: la candidatura dell’emerito come quadratura e difesa del perimetro regionale. In Campania le slide di Renzi non funzionano, sono ancora i vecchi lupi della Dc e del Pci a decidere la partita, secondo l’antica regola della spartizione consociativa: la Regione a me, il comune a te e insieme la gestione delle grandi opere e dei fondi comunitari.

Non bisogna dimenticare, infatti, che la prossima giunta programmerà e spenderà l’ultima tranche di aiuti comunitari (2013-2020), grazie ai quali si potranno decidere le sorti della regione, utilizzando la mano pubblica per incrementare questo o quel settore, a beneficio o discapito di questo o quell’imprenditore. Un tempo le decisioni avvenivano direttamente nelle stanze romane dei partiti e i rappresentati locali erano le controfigure dei leader nazionali e delle loro correnti. Deputazione e amministratori meridionali erano scelti in base alla capacità di irrorare il canale di collegamento tra cento e periferia, tra stato e società. Erano broker il cui valore dipendeva dall’attitudine a intermediare gli interessi locali che trovavano sbocco o attraverso l’iter parlamentare, con una delle tante “leggine” corporative, o attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, con l’atterraggio di una nuova e, spesso, inutile cattedrale nel deserto. Poi arriva Tangentopoli e la crisi della partitocrazia. Lo Stato diventa il capro espiatorio di una società civile arrabbiata e immatura (vissuta per cinquant’anni all’ombra dei partiti) che pone termine all’intervento pubblico, tacciandolo di assistenzialismo. Il localismo, nell’era della globalizzazione, è il nuovo paradigma intorno al quale si riforma la classe dirigente (riciclando in parte le seconde fila della prima Repubblica): la lega e la Terza Italia al Nord, gli ex funzionari di partito e i sindaci al Sud. Il risultato è stato la fine di una politica di respiro nazionale, sostituita da un becero municipalismo. Protagonista indiscusso della nuova nomenklatura è stato lo “sviluppo locale” in ogni sua forma: federale, flessibile, sostenibile, partecipato, liberista, solidale, sussidiario, ecologico, produttivo e compagnia cantando. Ognuno aveva la sua ricetta comunale, provinciale o regionale ma neanche uno straccio di proposta credibile per l’economia nazionale. È stato soprattutto il centro-sinistra a coltivare il municipalismo come potere alternativo al centro-destra berlusconiano. I candidati premier vengono tutti, eccetto Prodi, dagli enti locali: Rutelli, Veltroni, Bersani e Renzi, anche se la figura dell’ex segretario emiliano è associata al gruppo dei boiardi partitocratici, ovvero gli sconfitti (D’Alema, Amato, Letta). Con Renzi il municipalismo ha ottenuto la vittoria finale: da Presidente del Consiglio si comporta come il sindaco d’Italia con un Governo di assessori, più che di ministri, e un Parlamento trattato come un qualsiasi consiglio comunale. Il candidato Pd alla presidenza della Regione ha attraversato tutte queste fasi, portando fieramente la bandiera del localismo, ora a 66 anni suonati vuole riprovare a conquistare l’agognata meta. Vale la pena ricordare che Bassolino aveva 53 anni quando venne eletto presidente nel 2000. Nonostante lo slogan del candidato governatore, la Campania rimane ultima per innovazione politica e rinnovamento della classe dirigente.