Quando il futuro è una chimera

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Le città spagnole, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, sono state rottamate negli studi di famosi architetti. L’industria e il degrado lasciavano il posto ad astronavi di vetro e metallo atterrate in lussureggianti parchi. Un’operazione di maquillage realizzata grazie ai finanziamenti dell’Unione europea destinati alle regioni sottosviluppate. Gli spagnoli erano diventati bravi al punto da drenare il denaro necessario dalle altre aree svantaggiate incapaci di spendere i fondi europei. Così tra un lungomare restituito alla città, un museo al titanio ultramoderno e una scintillante cittadella della scienza, contornati da migliaia di locali in cui bere cerveza e mangiare tapas, si formava un modello di sviluppo tutto servizi e tempo libero che pareva essere il volano di un modernizzante miracolo economico. L’eco delle mirabolanti imprese iberiche giungeva persino sulla sponda campana del mediterraneo, anche agevolato dal flusso di studenti che, sempre più, sceglievano la Spagna quale meta privilegiata dove coniugare formazione universitaria e divertimento. Tanti, ma proprio tanti, decidevano di trasferirsi definitivamente in quelle città sperando di protrarre all’infinito la magica atmosfera di incanto. Un lavoro precario poteva bastare per tirare avanti in quel sempre presente di gioiosa e frenetica crescita economica senza produzione. Il boom, dopo circa vent’anni di sbornia, non era più l’esplosione di un’impennata ma il tonfo di una caduta.

Eppure ancora oggi su questa costa c’è chi osanna quelle scelte e crede che il gigantismo architettonico, contornato da bar, ristoranti, esercizi commerciali improvvisati e luci d’artista, possa determinare una crescita che infonda fiducia. Una città media del Mezzogiorno, che ha perso in vent’anni circa 50mila abitanti ingrossando i comuni viciniori, può sopportare il peso di opere faraoniche il cui costo iniziale, seppure esorbitante, è assolutamente irrisorio rispetto alle future spese di manutenzione? Un progetto organico di città si basa sull’equilibrio costante tra obiettivi a breve, a medio e a lungo termine. Quando si decide di costruire una megastruttura il buon senso indurrebbe a pensare che sia necessario prima rispettare gli standard previsti dai progettisti (stelle luminose dell’architettura), secondo impedire alle imprese di risparmiare sui materiali mettendo in pericolo la stabilità delle opere, terzo rispettare i tempi previsti (soprattutto se i finanziamenti sono pubblici ed europei), quarto appostare le risorse per la manutenzione. Il rischio è di fare la fine della Spagna: una bella città piena di disoccupati. Tuttavia, rispetto alla penisola iberica rimangono delle differenze: la prima, abbastanza evidente, è che la ristrutturazione non è avvenuta durante un periodo di crescita economica ed ha pesato e pesa in gran parte sulle risorse nazionali e locali; la seconda è l’insufficienza di una pianificazione nazionale che sostenga una modernizzazione urbanistica generalizzata; la terza è la discrasia tra progettazione e realizzazione (in qualche caso si è trattato di semplici proclami) . Infine, proprio in virtù di ciò che è accaduto in Spagna, è grave l’assenza di una programmazione sulle prospettive. Nessuno si è preso la briga di spiegare ai cittadini quali cambiamenti socioeconomici indurranno le fantasmagoriche trasformazioni. Quale sarà concretamente la Salerno dei nostri figli e nipoti (quali saranno i flussi commerciali? Quante saranno le attività produttive? Quale sarà la tipologia del traffico veicolare? Quanti abitanti ci saranno? Se diverranno strategiche le infrastrutture immateriali? Come saranno smaltiti i rifiuti? Che fine faranno il porto e l’aeroporto?) non è dato saperlo. Il futuro è una chimera, principalmente per i nostri politici che hanno bisogno di voti nel presente.