Provincia, il teatro che non c'è

teatroarbostellanewLeo De Berardinis diceva che il teatro è una grande forza civile; se volessimo prenderlo alla lettera , dovremmo dire che qui, e non solo a Eboli,  la civiltà non è mai arrivata. Provinciale, amatoriale, scadente: sono queste le tre parole che definiscono la scena del salernitano, dal volto ridente della politicanza locale. Da “Ma o’ pate chi è” a Pierino Tiramisù, siamo in una sorta di Disneyland  territoriale, con sindaci, assessori, funzionari, che si improvvisano esperti, impresari, quando non attori e registi essi stessi.  Una battaglia persa, quella della competenza dalle nostre parti, per la quale occorrerebbe più uno studio antropologico che critico, per capire come dalle autentiche rappresentazioni popolari, si sia passati ad una subcultura che usa il teatro dialettale come una clava; una smodata passione che accomuna  gran parte degli enti comunali dove però, a differenza di altre regioni,  i teatri si contano sulle dita di una mano. Nella provincia di Salerno è accaduto quanto profetizzava Pasolini, “l'alfabetizzazione, l'informazione e la televisione, l'imbastardimento del dialetto, hanno distrutto le varie forme culturali, appiattendo ogni espressività”. Gli faceva eco qualche anno più tardi Annibale Ruccello, autore di “Ferdinando” quando parlava di catastrofe del linguaggio e metteva in scena l’iperbolico “Mamme” dove massaie al telefono chiamavano i figli Maurizio e Costanzo o Pippo e Katia. La sottrazione selvaggia delle tradizioni ha finito per soccombere al gigante Napoli che con la sua tradizione colta e secolare,  si mangia in un boccone quel “resto di niente” che è la regione; salvo quei rari casi di un Toni Servillo che, a dispetto delle tournée internazionali, resta saldamente ancorato alle radici casertane. Poco altro riusciamo a trovare come Casa Babylon a Pagani, il gruppo di Nicolantonio Napoli che rischia ad ogni cambio di giunta di essere sfrattato dal Centro Sociale, dove pagano regolarmente e dove allestiscono la rassegna Scenari pagani.  A Salerno Pasquale De Cristofaro per anni ha cercato una sede sperimentale o il più giovane Antonello De Rosa; oppure le mini rassegne autogestite di Vincenzo Albano,  Antonella Valitutti, o il Festival Teatro XS  al Genovesi. Di contro, una intera storia di rituali religiosi e sacri oggi trova le sale parrocchiali trasformate in teatri e le direzioni artistiche affidate ai sacerdoti. E’ il caso del San Francesco di Scafati, o del S. Alfonso di Pagani poi trasformato in teatro comunale.  Qui, invece di rivolgersi a quelle poche forze locali,  stagioni a gogò di teatro comico, umoristico, cabarettistico, mai un qualcosa di serio, dovesse far male a platee pasciute di “Puortame a mammà” o “Mpriesteme ‘a mugliereta”. Così al Teatro Diana di Nocera, troviamo qualche piccolo sforzo con quell’”intellettuale” di Ambra Angiolini e  addirittura un testo di Stefano Benni in un territorio come l’Agro che ne ha viste di migliori; né l’altra parte del territorio si smentisce con il Teatro della Provvidenza di Vallo della Lucania, con Salemme, Buccirosso, Benedetto Casillo, Silvio Orlando, Gianfelice Imparato,  teatro leggero ma almeno di professionisti. Gli antichi travestimenti carnascialeschi, come le rappresentazioni della Zeza, hanno perso del tutto quel valore del “gesto scoronante” per diventare un puro sganascio di risate. Già i Greci consideravano il teatro non un semplice intrattenimento ma il luogo della polis  dove lo spettatore si recava a teatro per riflettere sul mistero della vita, sul rapporto con il destino e questo rafforzava il suo legame con la comunità. L’aspirazione locale ad una mera arte istrionica, cui si assiste nei nostri luoghi,  spesso senza arte nè parte, diventa invece  una pulsione spontanea che non ha più storia e da sola giustifica l’azione: mi piace ergo mi esibisco.  Scomparsa del tutto la necessità di un confronto con le varie scuole che la disciplina comporta. Ora che è scomparso anche Luca Ronconi, di maestri ne restano ben pochi ma tutti, incredibilmemte, tengono scuole di teatro ai tanti giovani che hanno voglia di fare teatro. Con Ronconi se ne è andata quell’idea speciale del teatro che sfidava la convenzione e affrontava grandi temi. Quando mise in scena “Riccardo III” ormai un secolo fa, prese il giovane primo attore, un certo Gassman e lo imbracò in una corazza, sospeso da una parte all’altra della scena, sottoposto ad una reale sofferenza fisica, per raggiungere il sublime della interpretazione. Più avanti Carmelo Bene in “La cena delle beffe”  trasformava un vecchio testo d’antan  come “La cena delle beffe” di Sem Benelli,  in uno scontro tra umano e non umano. Ronconi, Leo, Bene, una gara tra mostri che non facevano che sottrarre, non solo in omaggio alle teorie del filosofo Deleuze, ma perché sopraffatti dal loro stesso talento. Qui vince l’accumulo, l’”ammuina”, e basta qualche spicciolo di passione perchè la sera si reciti a soggetto.  I Comuni gigioneggiano, ingaggiano, scritturano, selezionano; quando va bene, come a Salerno, il teatro lo danno in appalto, con una spesa di 220mila euro,  al Teatro Pubblico Campano. Il circuito napoletano gestisce 23 teatri in Campania, oltre ai capoluoghi, Salerno, Avellino e Caserta, collabora alla stagione del Teatro delle Arti,  del Nuovo salernitano e il S. Alfonso a Pagani, e il Diana a Nocera Inferiore,; eppure nonostante il peso (tra i circuiti maggiormente finanziati),  non riusciamo a competere con quello che avviene nelle Marche, in Toscana, nell’ Emilia Romagna dove i circuiti gestiscono centinaia di teatri sparsi tra città e piccoli centri con cartelloni di teatro classico, contemporaneo, compagnie sperimentali. Per I Comuni  che non hanno aspirazioni “in proprio”,  il circuito è l’unica soluzione, allestisce un cartellone professionale e cura tutta la  catena burocratica; ma se le produzioni nascono altrove, nulla si crea sul territorio. Altrove sono state fatte altre scelte come il Teatro Pubblico Pugliese che ha creato Teatri Abitati  che ha creato residenze per tredici gruppi teatrali; a Castrovillari, ai piedi del Pollino, Scena Verticale - gruppo variamente premiato -  con il comune di Cosenza ha dato vita al "Progetto MORE" per il Teatro Morelli; in Puglia, i Cantieri Teatrali Koreja, gestiscono a Lecce una ex fabbrica di mattoni ripensata per teatro,  danza, musica, arti figurative.  A Catania da anni c’è il progetto Zo,  Centro per le arti e le culture contemporanee, oltre  25 teatri, tra opera dei pupi, lirica, teatro contemporaneo. Per non parlare dell’INDA a Siracusa e delle Orestiadi di Gibellina o di gruppi ormai storici, dallo scomparso Scaldati, al lavoro di Bavera al Garibaldi di Palermo, a Lina Prosa, a Claudio Collovà, a Emma Dante. A Paestum, dove abbiamo quel patrimonio dell’umanità troviamo nei templi vergognose Medee amatoriali; oppure un Mito più Infinito della compagnia locale dell’Accademia della Magna Grecia. Ad Ascea il notevole impianto teatrale della Fondazione Alario, progettato da Portoghesi ai bei tempi socialisti, resta vuoto di eventi significativi. Eppure il riuso degli spazi è diventata la vera cifra che ormai distingue il modello di “città europea”, (quello su cui Salerno si è  raccontata in questi anni numerose frottole) con  il P40 di Amburgo, lo  Chapitò di Lisbona, il Chocolate Factory di Londra, La Friche di Marsiglia e tanti altri spazi  dove la cultura diventa welfare sociale per periferie e aree di disagio metropolitano. Qui mentre languono tabacchifici e spazi industriali,  a Salerno si è tentato qualcosa con l’area dell’ex Salid e la creazione della Fondazione Salerno Contemporanea, con il gruppo napoletano del Teatro Nuovo e l’Università. Un progetto sprecato nella assoluta incapacità di creare una relazione autentica con il luogo; riducendo quell’edificio ad un teatrino di ospitalità, e non un centro multidisciplinare dove lavorassero gruppi, artisti, giovani; dove lo scorso anno Pippo Delbono  fu ospitato al Verdi e un intervento di Peter Greenaway ebbe come guida l’attore amatoriale membro del Cda; ora con i napoletani tornati a Napoli e spettacoli che saltano, alla Salid  pare si siano incrociate varie ambizioni tranne quella di dare alla città un luogo di cultura teatrale. Teatrini di quartiere anche ben gestiti sotto l’aspetto logistico sono il teatro La Mennola, l’Arbostella ma i programmi sono i medesimi; dove si segnala qualche operatività più attuale come quello della Ribalta. Come non mancano in provincia veri e propri teatri, il Cinema Italia di Eboli, il teatro comunale di Mercato San Severino, il Teatro Bertoni di Battipaglia. Strutture che avrebbero tutte le potenzialità per affiancare a cartelloni di commerciali progetti di respiro. A San Severino, ne abbiamo parlato di recente, stanno ospitando in questi giorni la rassegna Frontiere, con testi di Andrea Manzi e la regia di De Cristofaro, omaggio alla storia sperimentale di quel teatro che speriamo sia un auspicio concreto. Anche Agropoli ha il suo nuovo cineteatro, un’opera moderna e all’avanguardia, voluta fortemente dal sindaco Franco Alfieri che si è inaugurato il 21 dicembre e dedicato a Eduardo De Filippo e per il quale il Comune ha promosso una gara pubblica per la gestione, vinta da un operatore locale. In conclusione, non mancano le strutture, non mancano le risorse (cospicui fondi europei sono arrivati per gli eventi in questi anni e altri sono in arrivo) né operatori avvertiti e giovani promettenti; manca una classe politica evoluta, non europea, semplicemente italiana; che abbia l’umiltà di comprendere che saper raccogliere voti, amministrare risorse, e in qualche caso dribblare condanne,  non basta per guidare un territorio nella modernità.