Nazionalismo virtuale

guerrieri

L’affermazione della globalizzazione, e la contemporanea crisi dello Stato/nazione, insieme all’economia immateriale, da cui derivano la crisi finanziaria del 2008 e il successo delle piattaforme digitali 2.0, segnano un passaggio di civiltà inciso traumaticamente dagli attentati di New York e Parigi. I processi di modernizzazione sono sempre caratterizzati dalla trasformazione di pratiche che sottendono culture alle quali si accede attraverso una fase di ri-alfabetizzazione. Un salto accompagnato dall’ingresso di un rivoluzionario mezzo di comunicazione che modifica e amplia le relazioni tra classi e nazioni. Così fu per la civiltà della stampa, a cui è seguita quella delle immagini, affiancata dalle telecomunicazioni e dal cinema il cui connubio ha dato origine alla multimedialità che ha aperto la strada all’era digitale. Ma se da Gutenberg ai fratelli Lumière corrono più quattro secoli, dall’affermazione delle immagini in movimento a internet, viaggiando attraverso il telegrafo, il telefono, il cinema, la radio e la televisione, ci sono circa 100 anni, con un’accelerazione impressionante. È grazie alle conquiste del Novecento che abbiamo raggiunto risultati inimmaginabili per gli uomini dell’Ottocento. Eppure chi è cresciuto nel secolo appena trascorso, analogico e automatizzato, rimane spiazzato di fronte all’avanzare del digitale e della cibernetica, ovvero dinnanzi a quella sfera di dominio in cui il virtuale si è radicato come una pratica diffusa e accettata al fine di facilitare il vivere quotidiano. Un sistema reticolare che ha avviluppato ognuno in una logica di prossimità individuale smaterializzata, incoraggiata da una tecnologia resa ancora più affascinante dall’abbassamento della soglia di accesso. Chiunque può dotarsi di uno smart phone o di un personal computer e gestire, senza dover essere necessariamente scolarizzato, prodotti informatici complessi che ci appaiono sullo schermo con interfacce semplificate.

Basta un mouse per inserire una foto, postare una frase o un video con la consapevolezza che quando un mezzo di comunicazione narra un contesto provoca una bolla virtuale dentro cui è possibile alterare la realtà. Il social network ha potenziato queste capacità per due motivi: 1) è uno strumento digitale intermediale che consente l’utilizzo simultaneo di tutti i media, nuovi e tradizionali; 2) il suo utilizzo non prevedere una particolare tecnicità: non bisogna essere necessariamente uno scrittore o un esperto d’informatica o ancora un fotografo professionista per invadere la rete con i proprio pensieri e le proprie immagini. Si può fingere o essere iperrealisti, in virtù dell’appartenenza sociale o di una scelta etica. Persino un concetto come il nazionalismo è modificato sotto la spinta delle narrazioni disintermediate (o supermediali, a seconda dei punti di vista) del web. Scriveva Anderson nel 1992: «negli ultimi 150, le vaste migrazioni prodotte dal mercato, dalle guerre e dall’oppressione hanno profondamente incrinato quel che una volta sembrava una coincidenza naturale tra sentimento nazionale e risiedere per tutta la vita nella terra madre o terra padre». Ciò significa che si può essere dei duri e puri nazionalisti russi, ucraini, turchi, ebrei, cinesi o islamici pur risiedendo in un altro paese. «Benché tecnicamente cittadino dello stato in cui si vive comodamente, ma a cui lo lega uno scarso attaccamento, egli è davvero tentato di giocare alle identità politiche partecipando (con la propaganda, il denaro, le armi, in ogni modo tranne che con il voto) nei conflitti della sua Heimat immaginata» a portata di click. «Ma questa partecipazione senza cittadinanza è inevitabilmente irresponsabile: il nostro eroe non dovrà rispondere della politica a lunga distanza che egli intraprende, né dovrà pagarne il prezzo. E sarà facile preda dei manipolatori politici all’opera nella sua patria sognata». Anderson, quasi 25 anni fa, aveva già compreso che grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa si può essere sostenitori del Califfato pur rimanendo «comodamente» in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti o altrove. All’epoca lo studioso lo definiva «nazionalismo in teleselezione»; oggi lo si potrebbe definire “nazionalismo in network” o “net-nazionalismo” al quale può partecipare chiunque sia in grado di digitare un nick name e una password.