Nairobi e i suoi contrasti, di Sergio Musungu Mazza

Oggi 1Oggi 2Oggi 3Oggi 4Oggi 5E’ passato ormai qualche giorno dal mio ritorno qui a Nairobi, e dal mio ultimo “report”. Non manca la voglia di scrivere, ma non è così semplice capire questa città, sicuramente diversa dalla realtà Samburu, ma anche tanto lontana dai nostri standard!
Partiamo col dire che a Nairobi vive circa un decimo dell’intera popolazione del Kenya, e questo già fa capire come, in un paese dagli spazi smisurati, qui ci sia il primo contrasto, dato da un’altissima densità di abitanti per Kmq. Nella sola Kibera, 2,5 kmq, vi abita 1.000.000 di persone,in condizioni a dir poco misere.
Questa baraccopoli (“slum” nel linguaggio locale) è seconda solo a Soweto, in Sud Africa, come dimensioni, e il fatto che il suo nome derivi da kibra, ossia “foresta” già vi lascia intuire di cosa stia parlando: una vera e propria giungla urbana, dallo sviluppo piuttosto irregolare, formata esclusivamente da baracche in lamiera.
E’ un area fortemente inquinata, per la presenza di vere e proprie fogne a cielo aperto, ed è priva delle infrastrutture più essenziali. Qui la fame è un aspetto tristemente secondario, perchè malattie e criminalità violenta la fanno da padrone. Secondo alcune associazioni umanitarie operanti sul territorio, Kibera ha una sola latrina ogni 100 abitanti, gli infetti da HIV/AIDS sono oltre il 20% e i disoccupati l’80%. E a rendere tutto ancora più drammatico è che i servizi sociali locali, anzicchè cercare di lavorare per risolvere queste problematiche, sono largamente assenti dalle politiche del governo... gli abitanti di Kibera sono solo “numeri” e, da come più di qualcuno mi ha lasciato intendere, sono considerati un problema irrisolvibile, e per questo da non considerare...
Pensate che la paura più grande qui non è morire di fame, ma morire bruciati durante le fredde notti di Nairobi: gli abitanti infatti cercano, con pentole piene di carbonella, di tenere calde le loro baracche, ma capita sovente che queste prendano fuoco, ed essendo ammassate una all’altra spesso diventano vere e proprie carneficine.
Descrivere questo posto non è semplice, come non lo è fotografarlo.
Una linea ferroviaria attraversa la baraccopoli, pur non esistendo una sua stazione; la linea ferroviaria funge da arteria principale: lungo i binari si trovano diversi “negozi” che vendono generi di prima necessità, e quando arriva il treno, in fretta e furia, si deve saltar via dai binari con tutte le mercanzie.
Kibera nasce alla fine della prima guerra mondiale, fondata dagli inglesi che la “donarono” ai soldati nubiani come ricompensa per il servizio svolto. Tuttavia, una volta raggiunta l’indipendenza nel 1963, queste abitazioni vennero dichiarate (già allora!!!) illegali dal governo. Nonostante ciò vennero fittate a basso prezzo dai nubiani stessi agli abitanti più poveri della città, che lo considerarono un posto più accessibile nonostante le questioni giuridiche e “ambientali”.
Sono pochi i turisti che si “avventurano in questa parte della città, i più lo fanno guidati da gente del posto, è sempre consigliabile date le scarse condizioni di sicurezza.
Visitando Kibera si tocca con mano, seppur brevemente, la realtà di questo insediamento, e la lotta quotidiana per la sopravvivenza dei suoi residenti. Mi è capitato di fermarmi a parlare con la gente del posto, tristemente disillusa nei confronti della vita, e con i bambini che tra le baracche usano nastrini neri tipo quelli che usiamo per chiudere i sacchi della spazzatura per giocare al “nostro” vecchio gioco dell’elastico, oppure tirano calci ad un pallone con la speranza, un giorno, di diventare come Balotelli (è il calciatore italiano, ahimè, più conosciuto da queste parti) e che hanno ancora qualche sogno in più degli adulti.
Forse è poco, ma già donargli una caramella, giocare a fargli le fotografie e vederli sorridere riempie il cuore, e mi “illude” che ci sia sempre una via di uscita ai problemi.
Padre Jairo, il mio “contatto” sul posto, sta facendo un gran lavoro come suo solito insieme ai seminaristi che vivono con lui e che si stanno formando per diventare futuri missionari Yarumal. Ho visitato un asilo minuscolo, due stanzette nel cuore della baraccopoli, che con enormi sforzi stanno cercando di rimettere in sesto, aprendo qualche punto luce sulle lamiere del tetto, dando un pò di vernice sui muri e trovando banchi e sedie adatti all’altezza dei bambini: quello che altrove sarebbe un lavoro da poco, in questo intricato labirinto, fatto di sporcizia e spazi inesistenti diventa quasi un impresa, ma sono sicuro che, anche grazie al “nostro” aiuto l’asilo riaccoglierà i bambini a inizio settembre in condizioni migliori.
Ma Kibera non è solo questo: in mezzo a tanta schifezza, tra baracche che vendono secchielli di carbonella per cucinare o per riscaldarsi, e altre che hanno esposte vere e proprie montagne di mais, cibo principale in questa zona, ho visto anche artigiani di indubbio valore lavorare il legno e altri malteriali poveri. Un esempio è il mio amico Victorius Bones, un laboratorio che “ricicla” ossa di bue per ottenere magnifici oggetti come bracciali, orecchini, collane, portachiavi, e tanto altro ancora. Chiunque vorrà continuare, o iniziare, a sostenere i miei progetti potrà farlo anche acquistando ciò che porterò in Italia, in modo da permetterci di realizzare i sogni di tanti bambini.
Ma son partito parlandovi dei contrasti di questa metropoli, e leggendo di Kibera potreste vedere solo un’aspetto... Ieri, camminando per oltre 12 km, ho avuto modo di osservare cose che solitamente non saltano all’occhio, segno comunque di una civiltà non comune: il traffico di Nairobi, soprattutto nel centro della città, è qualcosa di indescrivibile, caotico, disordinato, lo smog è terribile data l’età della maggior parte dei mezzi in circolazione (specie bus, matatu e camion), ma ultimamente nelle rotonde stanno istallando semafori moderni, che affianco al rosso, o al verde, hanno un display che indica i secondi mancanti al cambio di colore.
A differenza che da noi il fumo è proibito in qualsiasi luogo pubblico, e non solo nei locali, e nei parchi cittadini, Uhuru e Central Park, veri e propri polmoni verdi all’interno del congestionato CBD, Central Business District, esistono delle apposite aree destinate ai fumatori.
Quello che salta all’occhio è che questa città sta correndo, è profondamente cambiata rispetto a 2 anni fa, quando l’ho vista per la prima volta, ma non tutti riescono a tenere il passo... Alberghi “importanti” come Hilton, Intercontinental, Serena e altri sono il segno che questa città è viva. Numerosi i ristoranti, di ogni cucina desiderata, che durante la giornata sono affollati dai più benestanti, oltre che dai turisti. Ovviamente tutto questo sta portando ad un drastico aumento del prezzo della vita, e per chi non ha lavoro, o lavora sottopagato, questo progresso diventa automaticamente un “regresso”. La benzina, ad esempio, che qui costa meno di 1€, potrebbe sembrare molto economica per i nostri standard, e lo è per tutta quella classe borghese che si sta facendo largo a spallate, ma resta carissima per la stragrande fetta della popolazione, che ha salari intorno ai 3-400 euro al mese, e che quindi non può permettersi una macchina. Nonostante questo, come vi ho detto, le strade sono invase da mezzi di ogni genere, e la disciplina alla guida non è eccezionale.
Entrando nei supermercati, poi, si capisce che l’occidente non è più così lontano... sugli scaffali sono presenti i prodotti dei principali nostri marchi (ho trovato anche la Nutella) ma i costi sono decisamente superiori ai nostri, mentre i prodotti locali sono sicuramente a basso costo...
In definitiva il Kenya è un paese ricco pieno di poveri o un paese povero con un pò di ricchi? Ancora non l’ho ben capito, sono più propenso per la prima, qui la ricchezza esiste davvero, ed è principalmente degli indiani, degli imprenditori occidentali e della classe politica, che, un pò come da noi, non si concentra molto sui bisogni della stragrande parte del popolo. E qui il popolo non conosce il significato di parole come “sciopero” o “ribellione”, a causa della loro formazione radicata nel tempo e frutto del colonialismo britannico. Ma se un giorno si dovessero svegliare...