Merito o fedeltà? L’ascensore sociale meridionale

di Carmine Pinto
Berlusconi ha deciso di tornare in campo. Bersani ha vinto le primarie del Partito democratico, Casini semplicemente ha deciso di restare dov’era. Non ci sarebbe niente di strano, se evitiamo il paragone con tutte le democrazie occidentali. Non si tratta di fare analisi etiche né di assegnare giudizi morali sui tre protagonisti, ma di prendere atto che si tratta di personalità affermate, anche se in proporzioni diverse, nella Prima repubblica e sono oramai da almeno vent’anni al centro della politica italiana. Il ricambio delle élite è un problema atavico della democrazia e, per molti aspetti, di tutta la storia italiana. Nel 1994 sembrava che, con la formazione per la prima volta di un sistema basato sull’alternanza, una modernizzazione dell’ambiente politico avrebbe favorito un modello di rinnovamento normale dei gruppi dirigenti. Invece è successo l’opposto e si sono consolidati gruppi di potere che in molti casi erano formati dalle seconde, terze e quarte fila della Prima repubblica.

Il problema è tanto più grave quando ci si sposta dal palcoscenico nazionale a quello locale. Il sistema si è bloccato, in molti casi si è fermato al 1993, in qualche caso al decennio successivo, ma con caratteristiche simili: lo spostamento dei processi decisionali e della selezione delle èlite dai partiti e dalle forze sociali ai gruppi di potere istituzionali e ai clan familiari. Chi ricorda la Prima repubblica ne conosce la caratteristica fondamentale, il primato dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Ovviamente, la forza imponente e spesso prepotente dei partiti aveva molti risvolti negativi, opprimeva e portava corruzione, faceva del clientelismo una bandiera. Ma sottolineare i difetti, non significa eliminare altri aspetti altrettanto importanti: i vecchi partiti furono un immenso quanto unico ascensore sociale per l’Italia del dopoguerra e per i trent’anni successivi. Nella Prima repubblica uomini che provenivano dal mondo rurale, da famiglie della piccola borghesia o addirittura dalle campagne poterono diventare ministri, sindaci, deputati. Attraverso la Democrazia cristiana o il Partito socialista, i repubblicani o il Psi si poteva crescere nella società, aspirare ad una cattedra all’Università o ad affermarsi come avvocato, magari entrare in un giornale o all’ENI, pur non appartenendo a gruppi o a ceti privilegiati magari da generazioni.

Negli ultimi vent’anni nessun altro luogo di crescita sociale ha sostituito i vecchi partiti. Anzi, le élite si sono chiuse in due monoliti. Innanzitutto vecchie e nuove famiglie di privilegiati, nelle professioni, negli apparati dello stato, non hanno più dovuto fare i conti con i partiti, si sono limitate a blandire un presidente di regione o un sindaco, per formare grandi centri di potere dove l’unico ascensore sociale funzione per i propri familiari, clienti e qualche volta amanti. I partiti si sono quasi sempre limitati ad assecondare i vertici istituzionali che, in termini sociali, hanno riprodotto lo stesso meccanismo. La selezione, in questo caso, è stata affidata solo a criteri di fedeltà di gruppo o di clan, quasi mai di merito. Le centinaia di migliaia di giovani che hanno votato Renzi, che voteranno per Grillo o, in gran parte, non andranno a votare perché sono emigrati o non ne hanno voglia, lo faranno per questo. Perché il rischio è che, ancora una volta è la fedeltà, non il merito, a decidere chi avrà spazio nel paese.

pubblicato su "la Città" del giorno 8 dicembre 2012