Medea, una tragedia soltanto sfiorata

medeaQuando la ragione viene meno, anche gli dei scompaiono. “Vattene per gli spazi celesti, grida un esausto Giasone a Medea. Sarai la prova vivente che gli dei non esistono”. Per Pierpaolo Sepe, che firma questa “Medea” in scena al Verdi, gli dei sono fuggiti  da tempo,  non dalla patria di Creonte dove si svolge  la tragedia di Giasone e Medea, ma dall’intero occidente, piombato nel caos e nel disordine. Qui tra le rovine, spunta qualche memoria sepolta del vecchio impero, United States ovviamente, mentre i personaggi maschili calzano cappelli da yankee, pallide copie di qualche guerrafondaio texano. Nello scenario di una vecchia fabbrica in disuso, dove sono evidenti i segni della catastrofe, di una qualche guerra di qualche lontano golfo, Medea vomita il suo dramma, avvolta nel suo grumo di dolore, ossessionata dai ricordi degli antichi delitti, attorcigliata dalle velenose serpi della vendetta e del furore. Euripide racconta la tragedia di uomini vittime del fato e pone al di fuori della scena l’orrore per suscitare pietà nello spettatore; Seneca non allude ma espone e l’assassinio è in primo piano in tutta la sua atrocità. La Medea di Seneca è un’”operetta morale”. Serve al suo autore per  istruire il giovane imperatore Nerone, a mostrargli la retta via della ratio, contro l’orrore della cieca passione. Medea è preda del suo “furor”, è un mostro, creatura senza scampo, destinata a diventare ogni volta Medea. E’ quindi una figura retorica, esempio filosofico del male contro il bene, insegnamento per la Virtus stoica, utile dimostrazione di dove le passioni, l’ira e il furore , possano condurre l’animo umano, figura linguistica, della parola detta, più che rappresentata. Pierpaolo Sepe, giovane regista napoletano,  insiste molto sulla contemporaneità, vi si accomoda come un giaciglio caldo, con un immaginario più filmico che teatrale (da “Blade Runner” al più recente “Oblivion”); mette in bocca al nunzio-narratore parole dei detenuti di Guantanamo; fa delle figure maschili dei Gran Bastardi  e pone Medea in un angoscioso quanto ineluttabile presente. Lo spettacolo ha alcune buone frecce al suo arco, a cominciare dall’asciutta, essenziale, ottima recitazione di Maria Paiato e inoltre l’atmosfera sospesa e irreale, postatomica, extratemporale, avvolta in una nube di un decadente maleficio. Ma la  complessità del mito di Medea, terminale profondo dell’Occidente; e della stessa tragedia senechiana restano temi solo sfiorati, non afferrati del tutto, sia pure tra molte suggestioni. Con la Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe. Applausi.

Nella foto una scena da "Medea" con Maria Pajato