Le sconfitte che generano il mito

Cause perdute

Può la sconfitta generare un mito in grado di interferire nella narrazione della storia dei vincitori? La domanda pone un tema affascinate, non solo dal punto di vista storiografico, perché consente di entrare in quei meccanismi culturali, sociali, psicologici che danno vita alla formazione di sub culture politiche e strategie di sopravvivenza simbolica dei vinti. Chi sono i vinti? Potremo banalmente considerarli come gli elementi espulsi da un regime che sorge dalle ceneri di un conflitto in cui si sono vissuti momenti drammatici e fratture radicali. Una dinamica comune nei passaggi storici che caratterizzano la fine di comunità politiche o stati, attraverso sconfitte militari, crisi morali e collassi istituzionali. I vinti si presentano allora come delle vittime di una violenza mirata istruendo un processo culturale che, in maniera più o meno efficace, crea delle identità collettive, rielaborate a seconda delle congiunture storiche: il ricordo delle cause perdute, allora, torna ciclicamente con il portato della sua lacerazione vittimaria, sviluppando una nube metastorica che mischia il presente e la memoria. Una memoria che vuole occupare lo spazio della storia ridefinendo la narrazione in un “tempo compresso” come rifiuto del tempo trascorso. Un rifiuto che istruisce la comunità dei vinti alla pratica della presentificazione del passato facilitando la composizione letteraria e l’uso pubblico di memorie artefatte, intorno alle quali si erigono prismi di lettura deformanti. Così vicissitudini parziali rocambolescamente conservate nel presente, ricostruzioni ex-post modellate col senno del poi o la menzogna del dopo, dirigono lo sguardo che portiamo su ciò che ci precede.

Il risultato non può che essere il ritratto di una memoria avvinta dall’emozione e assorbita dalla sofferenza, eco di un dolore a senso unico che confonde surrettiziamente episodi storici contrapposti. Un’ossessione memoriale finalizzata alla creazione di una nuova topolatria: il culto di luoghi e momenti sapientemente selezionati per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura. Emanate le sentenze, sepolti nelle galere o ripresi dall’esilio gli insorti, deplorati i morti di una parte e decorati quelli dell’altra, elevate le lapidi e innalzati i monumenti, ribattezzate le vie, ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria. Le cause perdute sono rintracciabili in numerose esperienze dell’età contemporanea dalle guerre civili ottocentesche alle vicende dei bianchi russi o dei nazionalisti cinesi nel Novecento. Se non capaci di ribaltare le condizioni politiche e sociali determinate dalla disfatta, rielaborano la loro sconfitta in forme diverse, a volte combinando nostalgia e mitizzazione del passato, in altri casi producendo riflessioni teoriche solide e durature: la costruzione del mito della causa perduta generato dai vinti dopo la fine del conflitto. Questo è il tema che sarà affrontato oggi e domani dal “Seminario permanente di storia e storiografia” dell’Università di Salerno all’interno del convegno “Cause perdute. Miti e culture dei vinti tra Ottocento e Novecento”. La due giorni si concentrerà sulle narrazioni che hanno prodotto strutture retoriche efficaci intrecciando un filo rosso tra alcune cause perdute e le conseguenti guerre civili. In particolare, saranno prese in esame le esperienze in cui il conflitto termina con la formazione degli stati moderni o la loro rifondazione. Tra questi i casi più interessanti sono quelli dei patriottismi monarchici sconfitti nelle lotte ottocentesche: il legittimismo francese, il carlismo spagnolo e il borbonismo napoletano che avevano le proprie radici nelle guerre dell’Impero e nei conflitti tra rivoluzione e contro rivoluzione e si rinnovarono poi nello scontro con il liberalismo. Fare chiarezza con la luce della ricerca scientifica è il solo modo per spezzare la scia di una mitizzazione che ha dato luogo, con un uso e un abuso politico della sconfitta vinti nel presente, all’invenzione di tradizioni atte a dimostrare “ciò che non è stato”, nella speranza di trovare una “sintonia sentimentale” con l’opinione pubblica al di là della verità storica.