Le difficili scelte della Chiesa

Se ogni credente nell’agire interpella la coscienza per capire come comportarsi, tanto più deve interrogarsi la Chiesa, comunità “dei santi”(1Cor.16,15). Soprattutto quando l’azione si materializzi in un giudizio a carico di “fratelli” che abbiano commesso una colpa (Mt.18,15). Come comportarsi in quel caso? Dice il Rabbi: “va’ ammoniscilo fra te e lui solo, se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”(Mt. 18,16-17). Concedigli cioè un amore a senso unico, senza ritorno, senza la reciprocità dell’agape comunitaria. Il caso che Gesù regolava col suo precetto riguardava un dissidio all’interno di membri dell’”ècclesìa”. Per fatti più gravi, che nella comunità sono di “scandalo” per i più piccoli (dai “microi” - i bambini – agli “éskhatoi”, gli emarginati e i disprezzati (Mt.18,6 e 20,16), il Rabbi di Nazareth detta soluzioni estreme: tagliarsi la mano o il piede o cavarsi addirittura l’occhio se diventano motivo di scandalo. Meglio entrare privi di essi nel Regno che finire nella Geenna. Pensiero questo in linea con i valori indicati da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, quando dopo la moltiplicazione dei pani ci fu un serrato chiarimento coi discepoli sul “pane disceso dal cielo” e sulla necessità di mangiarne per entrare nella Vita. Allora, il nazoreo confermò (Gv. 6,63) che “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv. 6,63). Ci sono anche altri brani evangelici cui riferirsi per sapere che cosa la comunità cristiana, unita ai pastori, può e deve fare in casi conclamati (certi e provati) di comportamenti qualificabili come “scandali” dentro e fuori la comunità dei credenti. Il primo è di Luca (6,37 e segg.): “ non giudicate e non sarete giudicati, non condannate …eccetera. Quello cui si riferisce Gesù non è il giudizio umano ma quello morale che attribuisce la colpa (la quale per configurarsi richiede piena avvertenza e deliberato consenso), e che Gesù invano sollecitò a pronunciare nell’episodio della peccatrice candidata alla lapidazione. Per sua natura quel giudizio può appartenere solo a Dio. Il secondo passo è di Marco (11,15) e riguarda la cacciata dei venditori dal Tempio, trasformato in covo di ladri. Qui il giudizio morale lo dà Gesù stesso ed è pesante. Ma ci stava tutto, considerate le usanze ebraiche del tempo in materia di gestione delle attività sulla spianata del Tempio. C’è infine Giovanni (12,47), dove Gesù, riferendosi all’ascolto della sua parola, dichiara di non condannare chi non la ascolta, perché non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo. E’ scontato che la Chiesa abbia sempre presenti questi insegnamenti di Cristo. Quando però entrano in gioco comportamenti di suoi membri, che configurino ipotesi acclarate di “peccati contro Dio e contro l’uomo” (perseguibili su questo specifico terreno come reati dalle leggi dello Stato), non può starsene a guardare. Non può e non deve pronunciare essa i giudizi morali che competono a Dio, ma certo non può impedire (né ostacolare) il corso della giustizia umana, ma solo collaborare con essa. Esattamente come si sta avvenendo in questi giorni tra la Commissione Referente voluta dal Papa e la Procura di Roma. La Chiesa prenda quei provvedimenti che sono nella sua competenza. Con dolore, perché le ferite fanno male. Ma prudenza e morale esigono anche non si ripetano fatti evitabili. La Procura dal canto suo faccia altrettanto. La storia della Chiesa del resto è piena di “beati” colpiti da persecuzioni, ignominie e calunnie, finiti per questo dritti nella Gloria del Bernini. Bisognerebbe quasi augurarsi che di questo si tratti anche stavolta.