La sindrome di Jep Gambardella

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Lo sbotto di Toni Servillo – proprio perché non pensava di essere ascoltato – verso la giornalista di Rai News che gli chiedeva delle polemiche mosse dalla critica su “La grande bellezza” è la spia della distanza tra la cifra artistica del film e la realtà in cui viviamo. L’ultima opera di Sorrentino è la più felliniana non, come si potrebbe suppore, per il surrealismo, ma per la continuità storico-semantica con l’Italia della “Dolce Vita”. È come ritrovare Marcello più vecchio di cinquant’anni che per un vezzo salottiero ha deciso di farsi chiamare Jep. Il passaggio di testimone è talmente chiaro che non c’è nemmeno bisogno della tecnica della citazione per rendersi conto di essere al centro di un racconto sull’Italia contemporanea in Fellini style. Le polemiche, quindi, fanno parte del gioco: anche il grande romagnolo, innamorato della Capitale, era molto più apprezzato all’estero che nel suo Paese. Questo perché chi racconta il grottesco viene accettato solo se si pone in uno stato di astrazione intellettuale o se lo rende una favola pecoreccia, altrimenti giù botte da orbi dalla critica stracciona e dagli spettatori abituati ormai a vent’anni di cinepanettoni.

E così Jep se ne va in giro nella Roma della seconda Repubblica, attorniato da personaggi che si muovono come marionette, prive di senso, appena mettono piede fuori dal contesto in cui sono stati immaginati. Una galleria in cui lo stereotipo manipolato da Sorrentino diventa argilla modellata sulla fisicità del paesaggio sociale, ancor prima che urbano: l’imprenditore di giocattoli (guadagna sull’innocenza dei fanciulli) innamorato della moglie ma noto tra le prostitute Trans; la bella intellettuale di sinistra cinica e avviluppata nel suo complesso di superiorità; la ricca annoiata, alla ricerca di avventure; il provinciale smanioso ed insoddisfatto; il misterioso ed elegante mafioso, vero motore dell’economia nazionale; l’attrice impegnata approfittatrice dell’ignoranza del pubblico; il cardinale ossessionato dal cibo (una specie di eminenza master chef); la santa il cui sacrificio rimane un gesto individuale incapace di smuovere la coscienza collettiva. All’interno di questo variegato mondo spiccano tre donne: la nana, la spogliarellista, la fidanzata di gioventù. La prima è l’unica in grado di vivere la dimensione del reale grazie alla “prospettiva” del suo sguardo. La seconda rappresenta a tutto tondo l’Italia di oggi: una “femmina” di quarant’anni che continua a mostrare il suo corpo vivendo in uno stato di agio apparente per celare, soprattutto a se stessa, la malattia da cui è divorata. Il declino del “Bel Paese” entra nella carne della procace Ferilli raffigurato come il cancro di una popolana arricchita, ovvero l’immagine con cui i commentatori esteri descrivono la mutazione berlusconiana. Jep, avvicinandola all’armonia dell’arte, le restituisce il senso della misura (e di un distacco ormai incolmabile) e le infonde il coraggio di lasciarsi andare al suo destino. La terza è l’emblema della memoria mitizzata che affonda le radici negli anni del miracolo economico: il big bang da cui ha preso forma l’Italia del presente. Ma quel tornare alle origini, a quella che è stata davvero una dolce vita, gli impone il dovere della scrittura per rimettere ordine in un mondo la cui unica grande bellezza è la scintillante decadenza.