La politica delle performance

show

Il fascino della politica è il suo continuo divenire. L’editoriale della scorsa settimana è stato di fatto superato dalla scelta del Movimento 5 Stelle di provare ad arrivare al ballottaggio con una propria lista e un proprio candidato sindaco. In verità, il mio ragionamento astratto, fin troppo, è stato un modo per cercare di avviare un dibattito intorno alla città e alla selezione di una nuova classe dirigente, senza la quale non può avverarsi nessuna vera innovazione. È stato un modo, e ringrazio quanti hanno prestato attenzione alle mie osservazioni, per cogliere un’esigenza, manifestatasi con più energia nell’ultimo triennio, di dare sbocco ad una comunità di interessi di base. Una comunità capace di trasformare una corrente in cultura, una tendenza in movimento, un gesto individuale in significato a valenza generale. Questa città si è nutrita per oltre vent’anni di amministrazione ma è mancata la politica. Cosa voglio dire? La stagione dei sindaci, divenuta ben presto vizio di dominio locale, ha attratto molte forze sociali e produttive nell’agone della vita pubblica con il risultato di perdere di vista una prospettiva nazionale. I comuni, tra costose esternalizzazioni, privatizzazioni selvagge, società miste inefficienti, trasformazione urbana affaristica e compressione della spesa pubblica sociale, sono stati protagonisti di una duplice vicenda: da un lato hanno iniettato nuove energie nell’asfittico contesto municipale, dall’altro lo hanno reso una specie di Totem intangibile a cui rivolgere la preghiera della sera. La città, essendo il presidio istituzionale più prossimo alla “gente” (nella sua più ampia accezione), è il luogo dove più si percepisce lo scollamento dei gruppi sociali e dei corpi intermedi che in passato concorrevano a determinare un comune orizzonte di sviluppo economico e di crescita civile, dentro valori condivisi. Le disuguaglianze, che un tempo potevano essere tollerate in virtù di un generoso Welfare state, sono diventate insostenibili.

Così le città sono divenute i luoghi dove interi pezzi di generazioni, di ceti, di ambienti sociali si dibattono in preda al precariato cronico. Un capitale umano sommerso di esclusi che galleggiano ai margini della società attiva, sempre più ristretta ed elitaria. Per questi cittadini la democrazia fondata sul lavoro e sui diritti è una porta chiusa, e se è aperta termina in un sottoscala buio dal quale non si riesce ad evadere. L’uscita d’emergenza verso la scala è stata bloccata, mentre, come pena accessoria, si odono gli argani dell’ascensore sociale cigolare incessantemente per sollevare i pochi fortunati. Anche in passato è accaduto, ma la novità dell’oggi risiede nell’aver definitivamente accettato questa esclusione. Fingiamo di credere che il vincente e lo scartato siano ancora vincolati dallo stesso patto di società. Siamo immersi nella retorica, una retorica mediale che mescola tutto e tutti alterando il senso del reale: quello che una volta si chiamava riformismo, ovvero la necessità di adeguare le funzioni dello Stato all’avanzamento della realtà sociale, oggi è pura mistica del cambiamento continuamente evocato e contemporaneamente rinviato nell’attesa di un Messia locale e nazionale. Un outsider pronto a conquistare ma non a governare, a comandare ma non a rappresentare le istituzioni, che in fondo disprezza. Un capo contornato da una casta che esibisce la propria ignoranza politica come prova di autenticità e di estraneità al sistema, una specie di certificato d’innocenza. I sindaci del nuovo corso sono stati il primo esempio di riduzione della politica ad evento: la notorietà ha preso il posto della fama e la popolarità quello della stima. Il gesto politico, consumato nell’atto stesso in cui è compiuto, ha cancellato l’umiltà dell’azione pedagogica che era capace d’incidere sul senso delle cose, modificando in profondità la visione collettiva. Il leader è oggi semplicemente un performer che non ha bisogno di convincere nessuno perché gli basta strappare una suggestione per ottenere una delega periodica. Ma la colpa è anche nostra perché crediamo di partecipare, magari con rabbia, ad un comizio senza accorgerci che in realtà stiamo assistendo ad uno show. Il consenso, allora, si trasforma in audience e il cittadino è ridotto al misero ruolo di spettatore. Tocca a noi, perciò, decidere, a partire dalle prossime comunali, se l’indignazione è una luce ad intermittenza, che si accende e si spegne insieme alla musica della messinscena politica, o un reale fattore di cambiamento della realtà.