La pazza gioia dei matti

LAPAZZAGIOIASe avete vicinanza con problemi di salute mentale, non andate a vedere “La pazza gioia”, rischiate di essere sopraffatti dall'emozione. Il film di Virzì in questi giorni nelle sale, vi inganna abilmente. Prima vi cattura con una allegra comunità in una bellissima “location” nella campagna pistoiese, poi vi porta a bruciapelo verso la dura realtà di una condizione. Un gruppo di donne un po’ pazzerelle si trovano a Villa Biondi con  operatori volenterosi e comprensivi, un direttore amico, una signora un po’ su di giri bella e affascinante come Valeria Bruna Tedeschi che fa da Virgilio nell’allegra gabbia di matte. I film che hanno come tema il disturbo mentale hanno spesso questo taglio rassicurante “postbasagliano”, vi illustrano il problema dalla parte buona, matti e terapeuti sono tutti brave persone e il problema viene esorcizzato. Un approccio indispensabile che serve a non stigmatizzare la malattia mentale, a non averne paura, una patologia come un’altra della quale non spaventarsi. Ma il disagio mentale non è una malattia come un’altra. E’ un disturbo grave che trasforma le persone, altera le relazioni, devasta i legami affettivi e familiari. E spesso c’è chi non regge e scappa a gambe levate, oppure si abbraccia la croce ma a costo di gravi difficoltà. Se tutti i medici fossero come il direttore della Comunità del film di Virzì, si sarebbe marco cavallorisolto il problema della salute mentale nel nostro paese. Per quanti Marco cavalli si possano portare in giro per l’Italia, - come sa bene lo psichiatra Peppe Dell’Acqua a cui forse la figura del medico è ispirata -  il disagio psichico resta una corona piena di spine, tutta a carico delle famiglie che reggono il peso a volte in totale isolamento. Le strutture sul territorio fanno quello che possono; gli addetti sono impiegati dello stato che a volte funzionano, altre stanno lì per prendersi lo stipendio. I centri di diagnosi e cura negli ospedali non sono né di diagnosi né di cura ma strutture di emergenza e dopo i ricoveri sono affari vostri, vi riprenderete il vostro paziente e ricomincerete il solito tour dei centri sul territorio. In alcune città ci sono le cliniche private, dove  a volte qualcosa funziona anche se in alcune si pratica ancora  l’ elettroshock. Se infatti il paziente si agita, non tollera le cure, diventa ingestibile, può accadere di tutto anche che lo leghino ad un letto e lo lascino lì, e qualcuno ci rimette la pelle come è accaduto al povero Mastrogiovanni a Vallo della Lucania. Nelle comunità non si entra facilmente, ci vuole un lungo iter burocratico e in ogni caso si richiede che il paziente accetti di entrarvi. Il che equivale al comma 22 del famoso film, se uno è matto non accetta di esserlo e quindi non vuole entrare in comunità, né curarsi. Anche gli psichiatri hanno questo “protocollo”, è  il paziente che deve decidere. Se un paziente accetta la malattia e decide di curarsi vuol dire che è già verso la guarigione ma ci vogliono anni prima che questo accada,  dopo essere passati per le forche caudine dei ricoveri coatti, dei farmaci, delle cliniche o delle comunità.  Il matto in casa è insomma un problema serio, di difficile soluzione, per la cui gestione è indispensabile una rete sociale e terapeutica di grande efficienza che, tranne rare eccezioni, non esiste come non esiste la bella comunità del film. Per questo chi vive questo problema non ama i film consolatori che descrivono la follia come qualcosa di creativo e geniale,  ma la follia non sempre è divertente e può essere anche semplicemente orribile. Il film di Virzì, grazie a due attrici straordinarie ed un generale contesto di bravura, fa esattamente questo gioco,  prende per mano lo spettatore e lo conduce nella bizzarria accattivante della comunità, un luogo di cura  vicino alla persona, dove c’è affetto, dove si danza, si canta, si lavora. E anche la fuga di Beatrice e Donatella assume i contorni picareschi di un doppione di Thelma e Louise con le due donne che fuggono verso la libertà. Ma già l’arrivo in comunità di Donatella (Micaela Ramazzotti) che porta sul corpo stimmate e ferite, è il primo segnale che la vita di queste ospiti di Villa Biondi, non è proprio rose e fiori. La fuga, tra incidenti e bravate, è infatti costellata di tappe crudeli, rifiuti, porte sbarrate; le due donne cercano disperatamente di riallacciare i fili dei loro legami familiari, ma nessuno le accoglierà e se ne farà carico; anche i maschi bastardi che si sono scelte non faranno che acuire il loro malessere. La ricerca è allora non tanto verso la libertà, come nel film di Scott (che pure sappiamo come andò a finire), ma verso l’amore, la cura più difficile da trovare e sarà questa impossibilità “terapeutica”, questo “muro” alzato dal mondo esterno, a riportare le due donne nella comunità, alla fine l’unico luogo che le accoglie. Se è questo il messaggio del film, l’amore che lenisce il dolore, l’amore che “cura”, il regista ti accompagna per mano attraverso la pazza gioia di una sgangherata commedia, per poi colpirti con la dura realtà di una condizione, senza alibi, senza consolazioni. L’irrefrenabile Beatrice sprofonda nella fase down del suo disturbo bipolare, smette di parlare e si ferma; Donatella ritrova la forza di capire che solo se starà bene potrà rivedere il figlio perduto. Una speranza c’è nell’amicizia tra le due donne,  anche se quella canzone di Gino Paoli che accompagna il film ti dice che quel percorso è “senza fine”.  Al film ha collaborato anche il nostro Peppe Dell’Acqua ( nella foto piccola con il viaggio di Marco Cavallo) e si vede, per la delicatezza e la serietà con cui il tema è trattato.