LA "NUOVA" AMERICA TRA IL SOGNO E IL NULLA

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America, il sogno o il nulla? Paul Watzlawick, famoso psicologo e filosofo della Scuola di Palo Alto in California, intitola così il primo capitolo di “America, istruzioni per l’uso”. Un pensiero mutuato da Francis Scott Fitzgerald, e così da questi formulato: “America…un progetto per l’intera razza umana, l’ultimo e più grande dei sogni umani, o il nulla”. Il quadro del Paese che i grandi media americani hanno consegnato al mondo prima e dopo l’8 novembre scorso sembra proprio questo: la fine del sogno e l’arrivo dell’incubo. Ma stanno davvero così le cose? Certo, se pensiamo che il Paese che negli anni ’30 del secolo scorso regalò al mondo l’espressione “politically correct” è lo stesso che, 86 anni dopo, ha eletto come suo 45° Presidente un’icona del “politicamente scorretto”, è normale ci si chieda come sia potuto accadere. Anche perché ha vinto un outsider, uno al quale non i bookmaker ma il prestigioso NYT accreditava alla vigilia solo i 5% di possibilità di battere Hillary Rodham Clinton, moglie di un ex Presidente, lei stessa Segretario di Stato con Obama e senatrice dello Stato di N.Y. Una sconfitta non prevista, che con il passare delle ore si è rivelata catastrofica per il DP da 23 anni al potere. Faceva impressione sul NYT la nuova mappa del potere nell’Unione, tra Senato, House e Governatorati, con il DP ridotto in posizione di minorità politica. Del resto, la partita si è chiusa a favore del tycoon per 306 a 232 delegati, che hanno vanificato i 445 mila voti in più ricevuti dalla Clinton. L’imprevista e dirompente vittoria di Trump ha molti padri. Il primo è proprio lui, “The Donald”, come ora lo chiamano tutti. Uno del quale si è scritto di tutto e di più, rovistando da cima a fondo nella vita privata, com’è regola negli States. Colpito e messo al tappeto (con non celata ostilità il NYT anche il giorno del trionfo nei swing states ha continuato a strapazzarlo come un uovo nella column di Flegenheimer e Barbaro) persino dal suo partito, il magnate si è rialzato e ha ripreso a lottare fino alla vittoria. Con annesse scuse da parte di media e sondaggisti costretti ad ammettere di “non aver capito quello che accadeva intorno a loro”. Eppure avevano seguito molto da vicino la campagna elettorale. Ma non si erano accorti che in scena era entrato uno che – ha scritto Stefano Pistolini – si mostrava capace di parlare a “un popolo e non più solo a un elettorato”. Con lo slang sciatto e cafone che lo connota. E che è agli antipodi di quello “politically correct”che si ascolta negli apparati e nelle stanze del potere diffuso dell’America còlta e dominante rappresentata dall’establishment che ha ruotato attorno alle due replicate Presidenze democratiche tra il 1993 ed oggi. Sicché il 9 novembre non è stato un campanello ad interrompere “il sogno americano” ma una campana alla cui fune si sono aggrappati quelli che nella più grande potenza mondiale non hanno avuto voce in capitolo. Ma che ora forse l’avranno. Perché questo ha promesso loro a risultato acquisito “The Donald”: I will be your voice. Io sarò la vostra voce. E con il carattere di “hustler” (spaccone) che si ritrova c’è da giurare che lo farà nel modo “politically incorrect” che lo ha marcato per tutta la lunga Convention. La grande stampa internazionale si è sbizzarrita a cercare l’area culturale e sociale che ha supportato il magnate di New York City nella sua incredibile scalata alla Casa Bianca, tutt’oggi cuore del potere planetario. C’è chi ha scritto – come Guy Sorman per Le Monde - che la vittoria di Trump ha costituito la “revanche du mâle blanc” (la rivalsa del maschio bianco). Una vittoria di “genere”, una sorta di etnocentrismo (teorizzato da Sumner nel 1907 in Folkways) che troverebbe conferma nell’analisi fatta da NYT che ha attribuito al tycoon il 53% dei voti dei maschi contro il 41% orientato sulla Clinton. Una forbice che si allarga, se come base di calcolo si prende la “razza”: il 58% dei bianchi avrebbe votato Trump contro appena il 37% andato alla Clinton. Ma è sul piano sociale che il miliardario avrebbe spuntato un vantaggio competitivo, in quanto le persone con reddito più basso avrebbero voluto inviare un segnale di protesta alla politica delle lobbies e dei grandi gruppi di potere sostenitori della Clinton. Per il Rapporto Supplemental Poverty Measure, nel 2012 erano 49,7 milioni le famiglie americane povere secondo la definizione ufficiale (reddito inferiore a 23.383 dollari). Eppure è dal 1958 che l’America insegue il sogno di “società del benessere” (la “affluent society”teorizzata da Galbraith). Mentre sempre più americani finiscono nelle “trappole della povertà” che si addensano nelle periferie degradate delle grandi metropoli come nella cosiddetta “America profonda”. Quella che Roberto Minervini ha chiamato “the other sid” (l’altra faccia) dell’America nel film “Lousiana, presentato l’anno scorso a Cannes. Un’America sconosciuta ai più, dove la disoccupazione colpisce il 60% della popolazione attiva, e mostra il volto sofferente di un Paese che non sempre è quello che appare. “Un Paese – ha scritto Merenghetti - rimasto fermo agli anni della depressione, alla povertà e alla disperazione dei romanzi di Steinbeck e Caldwell”. Certo c’è sempre anche la faccia opulenta, raffinata e còlta, con un piede già su Marte. Ma le disuguaglianze vanno crescendo. E a un numero sempre maggiore di americani viene negato quel diritto alla happiness (felicità) enfaticamente fissato nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. Riuscirà ora il 45° Presidente degli Stati Uniti a mostrarsi adeguato a vincere questa sfida, concentrandosi sui problemi interni, senza isolarsi dal contesto internazionale? E’ un dubbio che pesa. God bless Americans, allora. O potranno essere guai per tutti.