La nazione dei social network

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Se la rivoluzione dell’informatica è davvero un passaggio di civiltà, allora è destinata ad influenzare tutti gli aspetti della vita umana dall’identità individuale al concetto di nazione, proprio come accade all’epoca della rivoluzione industriale che spostò lo scettro del potere dalla nobiltà alla borghesia, con la fine dell’assolutismo e la formazione di Stati prima liberali, poi democratici. Secondo la teoria di Benedict Anderson, risalente al 1983 (ovvero all’avvio della stagione neoliberista), la nazione è una «comunità immaginata». Non è un elemento naturale del vivere umano (razza e territorio), ma il prodotto di processi culturali e concettuali artificiali innescati dall'incessante generazione di simboli mitopoietici, dall'invenzione di tradizioni e dalla creazione di un immaginario collettivo unificante e di memorie condivise. Una "costruzione" nella quale assumono un ruolo fondante i mass media in grado di creare e plasmare un’audience inclusiva saldata da linguaggi, codici mediali, credenze ideologiche, stereotipi culturali, immaginari sociali, opinioni diffuse ed esperienze realizzate. Alle origini di questa "vernacolarizzazione" c’è, secondo Anderson, la traduzione in tedesco della Bibbia da parte di Martin Lutero che diede a un pubblico più ampio di lettori la possibilità di "immaginarsi" come comunità. Una secolarizzazione della società che rendeva gli uomini protagonisti della propria storia sottraendoli alla prospettiva di ancorare l'identità collettiva a una destino salvifico legato al disegno divino. Dunque il nazionalismo deriverebbe da uno sciame mediatico che evoca una serie di pratiche, simboli, valori, riti e celebrazioni in cui si riconosce una comunità a cui si è dato il nome di Stato-nazione.

Eppure sono proprio le nazioni ad essere state messe in crisi dalla globalizzazione il cui sviluppo è coincidente con l’avvento della civiltà informatica e dei new media. Le piattaforme digitali hanno spalancato le porte alla ridefinizione del concetto di nazione costruendo «comunità immaginate», multiple e trasversali, con pratiche, simboli, valori, riti e celebrazioni altrettanto performanti ma posti al di fuori delle dinamiche territoriali. Facebook con il suo miliardo e trecentomila utenti, per esempio, è stato paragonato ad una nazione. Lo stesso Zuckerberg, inventore e proprietario del social network, è stato riconosciuto come uno degli uomini più potenti al mondo, capo di Stato di una nazione multietnica, multiculturale e multilinguistica. Una nazione che contiene allo stesso tempo africani americani, asiatici, australiani ed europei. Il cittadino/utente è riconoscibile dal profilo, in cui è visibile una foto identificativa formato tessera come nelle carte d’identità, e la sua privacy è tutelata da codici di riconoscimento e griglie di accesso. In tal modo si definisce, all’interno dell’ambiente virtuale, uno spazio personale privato e uno spazio collettivo pubblico rappresentato dal wall della home page. Una separazione che richiama alla mente una delle caratteristiche principali dell’organizzazione sociale delle borghesie urbane nel momento in cui si accingevano a conquistare la guida degli stati nazionali: la divisione tra impegno pubblico (il lavoro e le attività sociali) e momento privato (la famiglia, gli affetti). Il collegamento tra le due sfere, la politica, avveniva attraverso la condivisione degli ideali e degli interessi personali e di classe. Allo stesso modo nei social network il nesso pubblico/privato si fonda sullo “sharing” (letteralmente “compartecipazione”) di foto, video, link, canzoni e post attraverso i quali il cittadino/utente comunica alla networked community gli ideali e gli interessi personali, senza più distinzione di classe. La condivisione dei contenuti è equiparabile all’attività politica della civiltà industriale. Lo sharing eccita la mobilitazione, pro o contro, intorno a temi emblematici e casi concreti rimbalzati dagli old media o nati direttamente nel contesto digitale in una convergenza intermodale amplificata che “vernacolarizza” la globalizzazione rendendola compatibile e assoluta. Basta cliccare su “Mi piace” per esprimere consenso o commentare in maniera negativa per manifestare dissenso. Il commento, in fondo, tende a riprodurre la libertà di parola, così come la creazione di gruppi e pagine fan riproduce la libertà di associazione delle società democratiche. I social network si presentano, in definitiva, come le nazioni delle nazioni (il cui territorio – luogo della prossimità – è rappresentato dalla compartecipazione mediale) in cui la cittadinanza scaturisce dalla compartecipazione mediale. I cittadini/utenti si incontrano e si scontrano generando un coagulo esperienziale in cui si intrecciano campagne e temi transnazionali a tradizioni, consumi e valori ultralocali, ovvero ciò che chiamiamo glocalizzazione.