La meglio gioventù vista da Bruxelles

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Sono venuto a Bruxelles per approntare una equipe di studio sulle criminalità organizzate e l'infiltrazione delle mafie nel mercato europeo. Un progetto ambizioso nato dal rapporto di reciproca stima scientifica avviato con il direttore del Dipartimento di Scienze sociali dell'Università di Liegi, Marco Martiniello. Il nome tradisce le sue origini italiane (il padre e la madre sono della provincia di Avellino), come per moltissimi altri italo-belgi di seconda generazione nati qui dopo l'emigrazione di massa degli anni Cinquanta. Un esempio? L'attuale Primo ministro, Elio Di Rupo, ha alle spalle la stessa storia; anche Salvatore Adamo, cantante di origine siciliane emigrato giovanissimo nel 1947, dà lustro alla nostra nazione entrando a far parte dei dieci belgi più famosi di tutti i tempi, insieme al calciatore Vincenzo Scifo, pure lui siciliano. Italiani sono anche molti giovani dottorandi dell'Università di Liegi, venuti qui, vincendo un concorso, dopo essere stati "segati" in Italia. Vivono a Bruxelles in appartamenti minuti o in soffitte gelide e fanno i pendolari. I loro coinquilini sono, spesso, altri italiani che lavorano come stagisti o funzionari al Parlamento o alla Commissione europea dopo aver conseguito, con risultati brillanti, un dottorato in qualche nostra università. Parlano correntemente e correttamente l'inglese e il francese e li riconosci solo quando ricevono una telefonata di qualche parente o di un amico premuroso che non li ha dimenticati. E allora vedi che le facce allegre si rabbuiano per tornare a sorridere quando termina la conversazione telefonica. Mi sono domandato se la mestizia dei volti sia nostalgia di casa o rabbia verso un Paese che non è stato in grado di offrire loro un'opportunità. Alla fine, credo, si tratti di una miscela di sentimenti non facilmente distinguibili per chi ha avuto ed ha la fortuna di continuare a vivere dove è nato e cresciuto.

In un momento di libertà sono andato a seguire la presentazione del presidio di Libera contro le mafie a Bruxelles. L'iniziativa si è tenuta in una libreria/bar, gestita da due ragazze italiane, nel quartiere europeo. Il pubblico era composto solo da giovani connazionali, il più anziano avrà avuto una quarantina d'anni. Qualcuno ha partecipato portandosi dietro i figli, insomma pareva una bella rimpatriata. Prima di cominciare ha preso la parola Roberto presentando ai convenuti un'associazione di migranti italiani che ha sviluppato una piattaforma web attraverso la quale è possibile ricevere informazioni e aiuto per affrontare le difficoltà legate al trasferimento in Belgio. Una comunità solidale e coesa che spezza la solitudine di chi per volontà o per necessità ha abbandonato questo Paese. Roberto ha anche riportato sommariamente i dati di un questionario distribuito tra gli italiani in Belgio. Dai risultati è emerso che, per la prima volta dopo l'emigrazione della metà del Novecento, intere famiglie si sono spostate non tanto per cogliere un'occasione negata in Italia, quanto per trovare un lavoro qualsiasi che le sottraesse da una potenziale povertà di ritorno, nonostante il livello culturale raggiunto da entrambi i coniugi. Dietro questa immagine si nasconde il fallimento del modello di formazione superiore e di sviluppo economico che non sono stati in grado di creare prospettive di lavoro solide e stabili neanche a chi mostra di avere meriti e qualità superiori alla media. Non voglio sollevare la solita e banale questione - un po' qualunquistica - dei raccomandati che vanno avanti con botte e spintarelle (il familismo e il nepotismo sono sempre esistiti ad ogni latitudine). Mi riferisco, piuttosto, allo spreco di denaro pubblico provocato dalla strozzatura accademica che tende ad espellere una grande quantità di giovani ricercatori costretti a riciclarsi (o più nobilmente a riconvertirsi) in altri settori (non sempre con maggior fortuna). In sostanza lo Stato italiano dopo aver investito su una persona, spendendo tra i 20mila e i 25mila euro per ogni anno di ricerca, perde questa risorsa a beneficio non del settore privato nazionale ma di un paese estero. In questi vent'anni ci hanno riempito di chiacchiere con la flessibilità ma nessuno è stato capace di modificare il mercato del lavoro, né di puntare seriamente sulla ricerca scientifica. Si è accettato il cambiamento imposto dalla globalizzazione senza lottare per la costruzione di un nuovo sistema di garanzie sociali che difendesse i lavoratori destinati al precariato cronico. Siamo diventati solo più poveri con la certezza di non poter fruire del benessere goduto dai nostri genitori. È questa incapacità che ha prodotto una generazione sfiduciata, pronta a rinunciare definitivamente sia al lavoro, sia allo studio, raschiando il fondo della botte dell'unico ammortizzatore sociale rimasto: la famiglia.