La differenza tra propaganda e realtà

italiaoggi qualità vita 2013

Una classe dirigente accorta non può sottovalutare i dati emersi dalla ricerca della Sapienza sulla qualità della vita italiana. La provincia di Salerno è all’ottantottesimo posto, ovvero all’interno del raggruppamento con il maggior numero di indicatori negativi (ha perso cinque posizioni rispetto all’anno precedente). Altre province meridionali sono andate meglio: Matera, Campobasso, Isernia, Potenza, Ragusa. Persino una realtà difficile come Taranto (dissesto finanziario e questione Ilva) ci ha superato piazzandosi al settantacinquesimo posto. Invece di cincischiare gli amministratori dovrebbero leggere con attenzione i dati e, con coraggio e umiltà, aprire un confronto pubblico individuando i percorsi da intraprendere per incrementare il benessere (non solo economico) delle comunità locali. L’indagine svela il gap dell’azione politica che, dopo vent’anni di roboanti promesse, non è riuscita a trascinarci fuori dal gruppo di coda delle provincie italiane. I cosiddetti policy maker, soprattutto quelli di caratura nazionale, dovrebbero sapere che il successo dell’azione di governo si misura in base alla coesione economica delle fasce sociali. Eppure Salerno è ancora una delle ventotto province che porta le stimmate del sottosviluppo; il che dovrebbe far riflettere sulla falsità della propaganda che imbratta muri e proclama messaggi ormai lontani dalla realtà.

Qual è la realtà? La provincia è indietreggiata nel tasso di occupazione e contestualmente è aumentata la mortalità delle imprese (dalla 42esima alla 97esima posizione). Scende di quasi trenta punti nella classifica della criminalità con un’impennata dei reati contro il patrimonio (evidentemente connesso al senso civico), delle estorsioni, delle rapine e un più lieve incremento del traffico di stupefacenti. Nel sistema salute calano i posti letto specialistici nell’ambito di una discesa generale degli indicatori di settore. Neanche nel tempo libero (nonostante il clamore della movida) si raggiungono risultati di rilievo: un anonimo settantesimo posto. Anzi è sconcertante il sottodimensionamento delle strutture che ci relega alla 103esima posizione. Il vero botto di fine d’anno, però, è il penultimo posto (109) nella classifica del “Tenore di vita”: consumi discendenti, redditi da pensione in diminuzione, depositi bancari in decrescita, rendite immobiliari calanti, prezzi al dettaglio in aumento. La provincia si difende sia nel comparto ambientale (grazie alla raccolta differenziata), sia rispetto al “disagio sociale”. In questa particolare classifica si piazza al quinto posto dopo Avellino, Caserta e Benevento. Ciò non significa che abbiamo servizi sociali efficienti ma che suicidi, violenze sessuali, incidenti stradali e disabilità hanno minor peso in proporzione alla popolazione. Secondo questi dati il modello Salerno, presentato come isola urbana felice dentro una dimensione regionale e meridionale catastrofica, non ha ragione di essere o meglio non è stato in grado, con la sua ossessione urbanistica, di migliore le condizioni deficitarie di partenza. La stessa strategia del turismo a tutti i costi non ha avuto, nel corso degli anni, nessun impatto sulla crescita del reddito pro capite, anzi pare essere divenuta la maschera accettabile di un antico modo di governare fondato sul dominio di rendita fondiaria e impresa edile, al cui centro si è innestata, con maggiore prepotenza rispetto al passato, l’amministrazione pubblica come interlocutore privilegiato. In sostanza le luci d’artista o decine di altre eventi sparsi in giro sono politiche simboliche prive di una concreta ricaduta economica, incapaci di invertire le condizioni di sottosviluppo. Piuttosto sembrano essere diventati elementi di distrazione collettiva usati per allentare la pressione dell’opinione pubblica. Il modello Salerno, dunque, ha isolato il capoluogo dal resto della provincia. Bisognava, invece, fare il contrario, ovvero renderla stimolo e terminale delle vocazioni e delle potenzialità dei vasti territori che la compongono. La città capoluogo potrebbe essere la borsa di intermediazione naturale delle produzioni materiali e immateriali realizzate sul territorio, ma si ostina a rappresentarsi come una repubblica autonoma che ha volontariamente reciso le sue radici storiche.