La città del golfo, rima d'inferno

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Geme la città del golfo. Nel cuore antico la poesia s’è macchiata di sangue. Un tempo c’erano gli amalfitani nelle case dagli archi imbiancati. Navigavano e commerciavamo per conto di quei barbari che governavano la città. La domenica si andava in chiesa a Santa Trofimena o Sant’Andrea per non dimenticare le origine repubblicane che li rendevano diversi dai sudditi del principe. Geme la città del golfo. Si volge verso la valle per ricevere il respiro degli antichi, ma una nebbia gassosa le tappa la bocca e le riempie i polmoni. Gli occhi sono rossi, la gola secca, la pelle brucia. Un tempo c’erano gli etruschi sulla riva del fiume che degradava verso il mare. Si riunivano in accampamenti in quella terra ubertosa, all’ombra di una folta vegetazione, pregando i penati e muovendosi sulla lingua d’acqua che univa il mare alla montagna. I metalli si fondevano in fornaci primordiali e nessuno poteva immaginare che quella pratica d’artigiani sarebbe diventata dannazione di progenie. Geme la città del golfo. Le bucano lo stomaco, scendendo giù dalla trachea al basso ventre, per inghiottire quitali e quintali di metallo, senza sosta e senza limite. Avida, brama le merci trascinandole, gigante dopo gigante, nelle viscere del corpo dopo un viaggio vorticoso che sfocia, come una deiezione, sulle rive del mare ingabbiato. Il celo è grigio, rispecchia il colore del mare. Geme la città del golfo.

Nascosta dietro la muraglia non riesce più a vedere l’orizzonte. L’odore della brezza ha il sapore del petrolio e il sole, se potesse, brucerebbe per la vergogna pur di non vedere le vite rissose degli abitanti del borgo. Per secoli ha compiuto il suo dovere illuminando quel panorama. Ma quegli uomini, a poco a poco, si sono tramutati in statue in mezzo ai palazzi, uno accanto all’altro, sempre più stretti, sempre più fitti, sempre più asfissiati. La carne, le ossa, le arterie e il sangue tutto è diventato gesso, cemento e asfalto. Un virus letale: chi mentre camminava, chi mentre dormiva, chi mentre era in auto, chi mentre faceva l’amore e persino chi mentre era in bagno. Pose terribili e naturali, replicazioni organiche della sciagura di Pompei. Ma qui non v’era lava né magma, è bastato respirare per essere trasformati rapidamente in statue di pietra, immobili e pesanti; una gravità mostruosa e terminale che ha reso il corpo un oggetto inerte. La città ha finalmente smesso di gemere. L’aria, ricolma di particelle virali, ha mutato in poche ore il paesaggio e gli abitanti in un museo dove natura e uomini si distinguono nella sfumatura dei grigi. La città in breve, per evitare l’estensione del morbo, è stata isolata dal resto della nazione, imbottigliata in una campana di vetro. Muniti di tute e maschere, ogni tanto, operatori delle Nazioni Uniti vengono a verificare se il virus è ancora attivo. Una delle ultime volte, uno scienziato polacco, convinto del cessato pericolo tolse la maschera. Inutile dire che è forse la statua più originale, tra le tante in mostra, con quella strana tuta da aeronauta. Tra le storie leggendarie che si raccontano una più di tutte appassiona gli storici: si dice che mentre in superfice c’era la morte grigia, sotto c’era la vita buia. Pare che nel sottosuolo, sigillati dai tombini, si fossero salvati alcune decine di cittadini costretti a vivere come scarti umani nel dedalo delle fognature. Fetore, sporcizia, bestie viscide in agguato, ma erano vivi, credevano, e se non lo erano almeno erano di carne ossa: potevano vedere, udire, toccare, odorare e nei momenti di grande sconforto abbracciarsi l’un l’altro. Passavano le giornate in silenzio per non consumare aria, finché improvvisamente qualcuno suggerì di scavare per sbucare oltre la campana di vetro. Purtroppo sbagliarono i calcoli e si trovarono al centro di un mare di cemento. Bastarono pochi respiri per diventare ornamenti d’arredo della grande piazza: statue con volti atterriti e bocche spalancate che esalano l’ultimo respiro. La città del golfo un tempo era rima d’eterno, oggi c’è chi dice che sia rima d’inferno.