L’immaginario della “mala setta”

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Il libro di Francesco Benigno (“La mala setta”, Einaudi, 2015) affronta le origini di mafia e camorra analizzando il ventennio successivo alla svolta unitaria. Il paradigma interpretativo è quello delle “classi pericolose”, ovvero l’universo criminale così come viene recepito e perseguito all’interno del modello statuale francese che costruisce un immaginario di “popolo a sé stante”. Una rappresentazione condizionata dalla paura dell’insorgenza plebea, nella sua natura intimamente sediziosa, a cui si associa, nelle figurazioni delle classi dirigenti, il timore delle cospirazioni settarie che provoca una strumentale confusione semantica tra opposizione sovversiva e delinquenza organizzata. Il modello francese di ordine pubblico è il fulcro intorno al quale i governi della destra storica e della sinistra parlamentare organizzano, nel corso del suddetto ventennio, le politiche di pubblica sicurezza. Il neonato stato italiano è fortemente condizionato dell’impostazione francese, al punto da imitarne le pratiche repressive, al centro delle quali s’innestano le operazioni di “Alta polizia”. Gli agenti della repressione si muovono nell’ambiente marginale (una zona grigia ante litteram), tra criminali e oppositori politici, con l’obiettivo di controllarli e catturarli, ritorcendo contro quelle stesse persone e organizzazioni le azioni eversive. La storiografia, nella ricostruzione dell’epopea risorgimentale, ha a lungo ignorato che “l’accavallarsi e il mescolarsi di personale di forze dell’ordine e di soggetti criminali sono un dato tradizionale e che ‘l’ordine pubblico è sempre frutto di un processo composito, in cui impostazione, negoziato, delega, si avvicendano e coesistono’”.

Attraversando le diverse fasi congiunturali l’autore ricostruisce le tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica e di gestione informale dell’ordine pubblico. Dagli episodi raccontati (riguardanti la Sicilia, Napoli e le regioni centrali – Emilia, Romagna e Toscana – e rientranti in specifiche dinamiche nazionali e contesti storici) si evince la strumentalità di un reiterato ricorso alla legislazione speciale contro camorristi, mafiosi e malfattori inquadrati all’interno di una più vasta battaglia contro gli oppositori politici (prima garibaldini e repubblicani, poi socialisti e anarchici) che segue la logica del “destabilizzare per stabilizzare”. Si intravede, così, la tensione a cogliere l’origine di un concetto di sicurezza nazionale che “attraverserà l’intero Novecento, non solo in Italia, ma anche in tutti quei paesi dove ha prevalso il modello francese di organizzazione amministrativa e di regolazione delle forze di pubblica sicurezza”. Il valore metodologico dell’opera risiede nella capacità di interpretare i fatti avvalendosi della cosiddetta “tendenza culturalista nella criminologia contemporanea, per la quale da un lato la ‘questione criminale’ deve necessariamente includere cosa la gente pensa sia il crimine, mentre dall’altro il suo studio non può essere affrontato indipendentemente dai processi culturali che la definiscono, tra cui, non ultimi, i costrutti analitici delle scienze sociali”. È dentro questo magma di fonti, sapientemente adoperate senza limiti gerarchici (letteratura, stampa, atti parlamentari e giudiziari, inchieste sociali ecc.), che Benigno coglie lo iato tra la realtà descritta dai funzionari della pubblica sicurezza e l’astrazione del racconto letterario su cui si fondano le analisi dei dirigenti politici. Una frattura colmata, in maniera plastica, dagli “schemi di tipizzazione che si condensano in modelli ideali… questi modelli informano la nuova immagine del criminale, vale a dire la figura di un essere che vive tra la gente comune, in città (e che dunque non è più il bandito di strada d’antico regime, o il brigante mitizzato e dislocato in un altrove rurale) ma che, al contempo, a differenza di qualunque persona che commette, occasionalmente, un crimine, si propone mediante quella che potremmo chiamare una ‘costituzione criminale’. Una figura, in altre parole, che, attraverso processi di simbolizzazione, incarna la criminalità e cioè la minaccia all’ordine sociale, il male”. L’immaginario di mafia e camorra, agitato contro le classi pericolose, genera una successione di topos, luoghi comuni e stereotipi che vanno interpretati come “un atto linguistico intenzionale, volto a illuminare un universo inesplorato o scarsamente conosciuto”. In tal modo si modellano e si fissano “le sagome incerte che configurano il male”, utilizzate per spiegare, ai fini del mantenimento del consenso, quelle realtà sfuggenti. L’evocazione della “mala setta” è, perciò, “un potente strumento di riconoscimento” da cui prendono forma i fenomeni di mafia o camorra che, grazie all’immaginario, svolgeranno una funzione poietica: influenzeranno, cioè, il giudizio collettivo e le prassi di gestione della sicurezza nazionale, divenendo, nelle mani della classe dirigente, il perno di un uso politico dell’ordine pubblico.