Il Sud nell'età di Monti

La manovra economica approvata dal governo tecnico-presidenziale di Mario Monti è un fatto unico nella storia dell’Italia repubblicana. I precedenti esecutivi emergenziali o parzialmente tecnocratici (Ciampi, Dini) pur avendo realizzato misure difficili e spesso impopolari, non erano mai arrivati a decisioni così rapite, nette ed imponenti. Le conseguenze sono tante, impossibili da riassumere in un breve commento. Alla base di ogni riflessione, però, c’è la comune e responsabile decisione delle più importanti forze politiche e, probabilmente, della maggioranza del paese, di sostenere in ogni caso le scelte dell’esecutivo. Tutti siamo consapevoli che il successo di Monti è l’unica possibilità per la salvezza dell’economia italiana e, per alcuni aspetti, una delle garanzie della tenuta della Unione Europea.

La premessa comune e condivisa non significa la rinuncia all’analisi critica (e autocritica). Il governo Monti è figlio di un’alleanza di settori tradizionali della politica e delle istituzioni italiane, rappresentati dal Presidente Napolitano, con forze importanti del paese: dalla grande impresa e finanza privata (laica e cattolica) alla Chiesa, dai partiti maggiori ai quotidiani più influenti. Altrettanto evidente è la sua prospettiva: un governo espressione della più capace ed affermata borghesia settentrionale, legata forze decisive dell’economia italiana e intenzionata a ricoprire un ruolo chiave nella messa in sicurezza del paese (e della propria funzione dirigente).

Piaccia non piaccia, questa è la realtà con cui fare i conti nel prossimo anno. In questo scenario, ha un senso parlare di ruolo del Mezzogiorno? Non c’è da farsi illusioni. L’apparato produttivo meridionale e la classe dirigente sono così fragili, frammentanti ed isolati, che è impensabile immaginare nel prossimo anno una funzione centrale del sud. Del resto, Monti ha dedicato a questo tema parole rituali esattamente come facevano Berlusconi e Prodi. I loro referenti politici, economici e sociali sono a nord della Linea Gotica.

Il problema è della classe dirigente meridionale. Negli ultimi vent’anni ci si è inventati di volta in volta movimenti sudisti (con tradizioni storiche inventate), laboratori nazionali (sempre vincolati alla legittimazione di leaders locali). In molte occasioni si è scaduti nelle peggiori rivendicazioni assistenziali o particolaristiche. Ora la serie di interventi di quest’anno (luglio, agosto, dicembre 2011) hanno messo a nudo la drammatica situazione dei ceti popolari e di quelli medi, la crisi dell’apparato produttivo e il declino crescente delle istituzioni pubbliche. Anche se nessun partito ha detto nulla su questo argomento, la larga maggioranza della popolazione giovane meridionale, come tante volte nel nostro passato, comincia a vedere nell’emigrazione l’unica uscita di sicurezza.

Negli anni passati la bolla economica aveva consentito alla classe dirigente meridionale di evitare un difficile giudizio politico e il confronto con la realtà. La crisi e ora il governo hanno definitivamente messo tutti brutalmente di fronte alle proprie responsabilità. Ora non è più possibile rinviare scelte cruciali se non si vuole condannare il sud a passare da un lento declino a un burrascoso precipizio.