Il senatore e il gladiatore (nell'arena elettorale)

Caldoro De Luca

Il Partito democratico è davvero il partito della nazione, degna rappresentazione delle sue contraddizioni: mentre si chiede al sindaco Alfieri di farsi da parte perché indagato in un processo per corruzione, si sostiene un candidato governatore condannato in primo grado per abuso d’ufficio (sorvolando sulle motivazioni che hanno condotto alla condanna). Ma, come al solito, si tratta di un gioco a rimpiattino: l’ex sindaco di Agropoli si sposta in una lista civica e così quella del Pd è bella pulita. Sulla questione liste civiche si è aperta, inoltre, una diatriba relativa ai transfughi del centro-destra pronti a saltare la staccionata per dare tutto il loro sostegno al candidato del centro-sinistra (che con questi appoggi non è più identificabile come tale). Tra questi anche il consigliere Carlo Aveta, ex de La Destra, che si sbraccia per il condottiero longobardo, considerato un perfetto uomo d’ordine: mascella volitiva e retorica infiammante. Il fascista Aveta (così si è definito in un’intervista pubblicata su un giornale campano) “se ne frega” delle ideologie e segue l’istinto primordiale che lo sospinge verso il carismatico leader salernitano, novello interprete della battaglia de “il sangue contro l’oro”. Poi ci sono gli immancabili opportunisti che hanno fiutato la possibile sconfitta.

Il governatore, intanto, ha allargato i cordoni della borsa lasciando intendere che nel prossimo quinquennio ci saranno risorse da distribuire per tutti, basta stare dalla parte giusta. È un recupero in extremis che, tuttavia, non può nascondere un dato di fatto: dal punto di vista della comunicazione è già sconfitto. L’avversario è avvantaggiato dalla continua e perseverante esposizione mediatica derivante dalla situazione di ambiguità giudiziaria. Sulla sua testa pende la spada di Damocle della Severino, ma il suo atteggiamento menefreghista (forse per questo Aveta lo ha scelto come capo) lo ha reso un gladiatore che affronta la sfida con la consapevolezza di rischiare l’intera carriera politica. Caldoro non pare altrettanto attrezzato. Sembra uno di quei senatori romani, abituato ai marmi dei palazzi e annoiato dal solito tran tran del potere, incapace di accorgersi dell’ormai prossimo disfacimento dell’impero. Non si è reso conto che le orde barbariche, calate dalle remote provincie, sono alle porte della capitale per strappare a morsi e bocconi le molli carni degli ultimi ottimati. Persino Cesare fu tradito dal figlio putativo! Cosa spera il governatore? Si augura che l’avversario sia messo fuorigioco dalla sua stessa protervia? Ha compreso che è proprio questa l’arma con cui cercherà di annientarlo, eccitando le viscere di plebei e piccolo borghesi? O forse crede che la Severino lo salverà? Se il candidato dei democrat vincerà le elezioni due sono i casi: o l’interdittiva scatta prima della proclamazione della Corte d’Appello, provocando la ripetizione della tornata elettorale (con un notevole danno erariale), o l’interdittiva arriverà dopo la proclamazione e la fulminea nomina della giunta. In questo caso sarà nominato un vicepresidente controfigura, facente funzione, in attesa del secondo grado di giudizio del neo presidente. Ora, dopo tutta la querelle montata intorno alla questione (con le prese di posizione dei dirigenti nazionali del Pd e la dichiarazione favorevole di Cantone, secondo il quale è eccessiva la sospensione a seguito di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio), è molto probabile (ma posso sbagliare) che in Appello l’emerito sia prosciolto. Se così fosse, considerato l’handicap iniziale, il nostro avrà vinto una battaglia che vale la guerra: potrà occupare lo scranno più alto di Palazzo S. Lucia e avrà, di fatto, determinato una condizione di oggettiva nullità della legge Severino (soprattutto se la Corte Costituzionale non si sarà ancora pronunciata). Dunque, le chance di Caldoro sono risicate. Ha una sola via per riprendere quota: buttare alle ortiche il mantello dell’uomo invisibile e impadronirsi del palcoscenico mediatico non tanto nel perseguire l’antica strada dei provvidenziali finanziamenti pubblici, quanto nel mostrare al popolo dei feroci, assetato di sangue e stipato sugli spalti dell’arena, l’attitudine al comando. Nonostante l’algida ritrosia, gli tocca, se vuole realmente competere, indossare l’elmetto e guidare la sparuta pattuglia dei fedelissimi nel vortice della mischia. Potrà non bastare ma almeno avrà provato a rintuzzare l’assalto dell’invasore con il piglio dell’uomo risoluto. Solo così, anche nella disfatta, nessuno potrà negargli l’onore delle armi.