Il rapper e le "lacreme napulitane"

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Un ragazzo di 19 anni campano piange di gioia di fronte a milioni di telespettatori per aver vinto una prestigiosa gara canora. La presentatrice lo ridicolizza dicendo di non fare la “sceneggiata”, ovvero una drammatizzazione dolente della realtà che spinge, chissà perché, i napoletani, e per estensione i campani, a piangere lamentosamente nei momenti di massima tensione. Secondo questa interpretazione si tratterebbe di un atto di debolezza di un popolo che, invece di reagire con compostezza, si dimena platealmente per esaltare uno stato d’animo interiore divenuto, attraverso lo sgorgare delle lacrime, una scena teatrale tesa ad avviluppare gli spettatori in un’atmosfera di commovente condivisione. In realtà, chi si aspettava la sceneggiata è rimasto deluso perché Rocco non ha rispettato il copione previsto: mentre piangeva avrebbe dovuto urlare una frase del tipo: “Grazie mammà, te voglio bbene assaje!” e poi accennare ad un contesto di marginalità sociale dal quale è fuggito grazie alla musica. Così non è stato. Il ragazzo ha pianto come tanti altri cantanti prima di lui, né più né meno. Perché quando gli altri vincitori di Sanremo si sono commossi non sono stati derisi con la solfa della sceneggiata?

La potenza dell’immaginario collettivo ha indotto la presentatrice a commettere un duplice errore: da un lato ci si è lasciati condizionare dallo stereotipo della “napoletanità”; dall’altro si è rimasti spiazzati dall’emozione del rapper che, per definizione, dovrebbe essere un duro. Cosa si aspettava la Litizzetto? Sarebbe stato meglio se Rocco, una volta ricevuto il premio e prima di distruggerlo sotto i piedi, avesse imprecato contro il festival dicendo: “Fuck you Sanremo, yeah!”? L’atteggiamento umano del giovane salernitano ha mandato in crisi tutti i luoghi comuni che offuscano il panorama culturale dei media nazionali. Una nebbia che impedisce di scorgere il dettaglio costringendo lo sguardo a ricercare punti di riferimento semantici ormai superati. Basta ascoltare “Nu juorno buono” per comprendere che la scena hip hop campana sta modificando i canoni stilistici del genere musicale: denuncia sociale su una base musicale melodica. Rocco canta non parla e lo fa nel suo dialetto esattamente come Clementino che è emerso sul palcoscenico nazionale dopo la gavetta nell’ambiente neomelodico. In Campania e in tutto il Mezzogiorno si sta formando una new wave crossover che unisce il neorealismo delle storie di periferia con l’armonia dei suoni mediterranei. La denuncia sociale sta diventando meno ideologica ma più politica, meno arrabbiata ma più efficace, meno rivoluzionaria ma più quotidiana. Nei versi non ci sono più solo i marginali, i centri sociali e i ribelli antisistema (tra i quali si confonde qualche camorrista) ma anche la gente che incontri per strada tutti i santi giorni e che è rimasta in silenzio finché qualcuno non le ha dato voce con una canzone. Dire che il pianto di Rocco Hunt è una sceneggiata significa confermare la teoria del “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi: un meridionale non può viaggiare per diletto ma solo per emigrare. Un’etichetta identitaria che ha il suono di un pregiudizio razziale; ma questa è un’altra storia.