Il Pd ancora tra Bassolino e De Luca

di Carmine Pinto
Il Partito democratico campano riunisce oggi la sua direzione, dopo aver registrato un risultato tra i peggiori d'Italia, contribuendo in termini decisivi alla sconfitta nazionale. Dopo il voto, gli interventi che hanno raccolto maggior attenzione sono stati quelli di De Luca e Bassolino. Il primo ha fatto a pezzi il gruppo dirigente del partito regionale e romano (salvando Bersani), il secondo ha denunciato l'insufficienza politica del segretario regionale Amendola e degli attuali dirigenti. Sembra incredibile ma, per molti aspetti, qualcuno poteva pensare ai commenti successivi alle elezioni del 1979 o del 1992. De Luca e Bassolino, infatti, sono al vertice del Pci, del Pds e del Pd dalla metà degli anni Settanta. Una riflessione che la dice lunga sul quadro politico del Partito democratico in Campania.
Non si tratta di un episodio. La sequenza di sconfitte è impressionante. Prima le provinciali del 2009, poi le regionali l'anno dopo. L'umiliazione più grande è quella del comune di Napoli: spazzati via dai vecchi alleati. Il disastro di quest'anno è quello conclusivo, ma una analisi di questo tipo non è sufficiente e occorre riflettere sulla natura del rapporto tra il partito e la società campana. La sinistra ex comunista conquistò il potere sulle macerie del pentapartito nel 1993. Non si trattò di una vittoria politica conquistata ad armi pari, anzi. La crisi italiana e in particolar modo l'offensiva giudiziaria, avevano distrutto gli avversari democristiani e socialisti. Vinsero sostanzialmente contro avversari ridotti ai minimi termini o inesistenti. Ma la realtà della società era diversa.
Negli anni ottanta in Campania il Pci non era più quello di Giorgio Amendola e Maurizio Valenzi. Perdeva elezioni una dopo l'altra, mentre gli uomini del pentapartito governano la nazione (De Mita, Gava, Conte, Di Donato, Scotti, Pomicino, Galasso e così via). La grande maggioranza della Campania si riconosceva nel vecchio centro sinistra e aveva progressivamente tolto al Pci anche la fiducia accordata negli anni Settanta.
Il problema dei nuovi vincitori era quindi quello di cambiare i dati costitutivi del sistema, conquistare non solo il potere istituzionale ma anche il consenso politico dei campani. Ds e Margherita, poi il Pd, hanno avuto per 17 anni il monopolio delle istituzioni, demolendo i timidi avversari di quegli anni attraverso un aggressivo decisionismo amministrativo e il controllo militare del potere locale. Eppure, non sono riusciti a conquistare il voto politico, la delega piena dei campani.
Insomma la nuova sinistra non è mai diventata classe dirigente nazionale ma si è aggrappata alle istituzioni locali, fallendo proprio dove avevano trionfato gli antichi avversari. Inoltre, dopo il crollo del sistema bassoliniano, il gruppo dirigente campano ha pensato di lucrare la crisi del centro destra per liberarsi, in un solo momento, sia dell'odiato Bassolino che dei berlusconiani. Ma non aveva un riconoscimento concreto della società locale.
L'illusione era di godere di un traino nazionale (utile una lista bloccata dei deputati), senza misurarsi con il governo locale e soprattutto senza una politica capace di dare una rappresentanza alla regione.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Pd campano ha perso le istituzioni senza conquistare il voto politico. Il nuovo gruppo dirigente ha dimostrato di non riuscire né in una cosa, né nell'altra, e, dopo trent'anni, restano a commentare solo De Luca e Bassolino.
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pubblicato su "la Città" del 9 marzo 2013