Il mio Presidente

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Il Presidente che ho amato di più è Sandro Pertini. La sua elezione l’ho vissuta a sei anni, insieme a mio padre e ai miei due fratelli maggiori, davanti alla televisione. Mio padre seguiva l’evento con la stessa passione di una partita della nazionale. Tifava apertamente per Pertini e noi con lui. Quando raggiunse il quorum gioì come se avesse segnato Roberto Bettega. Del resto, una quindicina di giorni prima si erano conclusi i mondiali di calcio in Argentina con il piazzamento al quarto posto degli Azzurri. Fu proprio grazie al mundial sudamericano che la Tv a colori entrò nella nostra casa. Una Grunding enorme e pesantissima con tanto di telecomando ad infrarossi. Per la prima volta vedevamo l’aula di Montecitorio con le sue poltrone in pelle rosso magenta. I parlamentari sfilavano nei loro completi blu e grigi, qualche ardito in beige, passando attraverso l’arco della cabina elettorale chiuso da una tendina verde pallido. Le telecamere indugiavano sui volti dei capicorrente, dei segretari di partito, degli esponenti del Governo e dei vari grandi elettori. L’elezione del Presidente era il rito dell’identità repubblicana per eccellenza: la scelta dell’uomo che avrebbe dovuto incarnare l’unità nazionale al di là della frammentazione ideologica dei partiti. Ad ogni scrutinio mio padre incrociava le dita e ripeteva come un mantra: “In quest’aula aleggia il fantasma di Aldo Moro”. Noi tre lo guardavamo con apprensione perché non avevamo dimenticato i servizi televisivi sul ritrovamento del cadavere nella Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma. Ricordo bene quel 9 maggio, anche perché era il giorno in cui il mio papà compiva quarantadue anni (la mia età attuale). Lui, comunista e dirigente sindacale della Cgil, non si dava pace per quella morte assurda decretata da un tribunale del popolo che con il popolo non aveva nulla da spartire. A distanza di anni, penso che vivesse quell’elezione da un lato come una cura per lenire il dolore della perdita di un grande statista, dall’altro come lavacro dello scandalo in cui era stato coinvolto il Presidente Leone.

Scrutinio dopo scrutinio la tensione aumentava: la Dc spingeva avanti Guido Gonnella, il Pci faceva quadrato intorno a Giorgio Amendola, i socialisti puntavano, invece, prima su Pietro Nenni, poi su Francesco De Martino. Solo alla sedicesima votazione i tre partiti riuscirono a trovare un accordo sul nome di Sandro Pertini. Esultando mio padre disse una frase che qualche tempo dopo sarebbe diventata il verso di una famosa canzone: “Un partigiano come Presidente!”. Il regime costituzionale nato dalla Resistenza aveva bisogno di ripristinare, come un’irrinunciabile ontologia, il nesso con le origini per superare un momento drammatico che, secondo le più recenti interpretazioni storiografiche, rappresentava la fine della Repubblica dei partiti, sepolta insieme al corpo di Moro. Non è un mio ricordo diretto, ma vale la pena citare un passaggio del discorso d’insediamento di Pertini: “…libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile, l'un termine presuppone l'altro: non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale... Ed è solo in questo modo che ogni italiano sentirà sua la Repubblica, la sentirà madre e non matrigna. Bisogna che la Repubblica sia giusta e incorrotta, forte e umana: forte con tutti i colpevoli, umana con i deboli e i diseredati. Così l'hanno voluta coloro che la conquistarono dopo venti anni di lotta contro il fascismo e due anni di gu erra di liberazione, e se così sarà oggi, ogni cittadino sarà pronto a difenderla contro chiunque tentasse di minacciarla con la violenza. Contro questa violenza nessun cedimento. Dobbiamo difendere la Repubblica con fermezza, costi quel che costi alla nostra persona. Siamo decisi avversari della violenza, perché siamo strenui difensori della democrazia e della vita di ogni cittadino…Ed alla nostra mente si presenta la dolorosa immagine di un amico a noi tanto caro, di un uomo onesto, di un politico dal forte ingegno e dalla vasta cultura: Aldo Moro. Quale vuoto ha lasciato nel suo partito e in questa Assemblea! Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui, non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi”. Tra poco avremo l’undicesimo Presidente votato a camere unificate. La sua elezione non sarà emozionante come quella di Pertini, né burocratica come quella di Cossiga, né drammatica come quella di Scalfaro, né lampo come quella di Ciampi, né novennale come quella di Napolitano. Molti sono i nomi in ballo, nessuno mi entusiasma. Allora non mi rimane che sognare un uomo che abbia il cuore di Pertini, la follia di Kossiga, il rigore di Scalfaro, la competenza di Ciampi e la cinica albagia di Napolitano, contemperata dall’umanità di Papa Francesco; insomma non un Presidente della Repubblica, ma il Presidente per la Repubblica.