Il capolinea della lenta agonia

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Anche il replicante di “Blade Runner” chiedeva disperatamente più vita, ma se la città di Salerno oggi potesse parlare, direbbe: Vincé, mo’ basta. La stanchezza, la sazietà di questa lenta agonia del governo salernitano, sono giunte al culmine per noi cittadini. Da mesi veniamo rimpinzati come oche da  fois gras , del quotidiano stillicidio di una morte annunciata; ora dalle condanne, ora dalla decadenza, ora dagli slittamenti delle primarie. Nel frattempo siamo scaduti noi. Se è questo che volevano coloro che “amano veramente” Salerno, ci siamo arrivati. Magari qualcuno è pure dispiaciuto e vorrebbe versare qualche lacrima sotto i cascami delle luci di artista che ancora brillano sul corso, ma la città non ne può più: è stanca, stremata,  da un consiglio comunale  che rinvia, cincischia, prende atto, e non decide; da un’opposizione che brontola, scrive qualche post su facebook e poi se ne sta zitta come un servo muto;  è attonita dinanzi ad un vice sindaco facente - funzioni il quale avverte che Dio c’è, sta sotto nel gazebo a piazza Amendola e tutto guarda, vede e provvede; non ne può più che qualcuno, la magistratura, il partito da Roma, la Cristoforetti dallo spazio o il mago Otelma,  decida finalmente delle nostre sorti che invece meriteremmo come tutti i miseri cittadini mortali di avere un governo decente. Se poi ci arriva l’ultima boutade dell’ennesima candidatura a sindaco (la terza, la quarta, ormai si è perso il conto), la sensazione è di trovarsi in un incubo, un continuo deja vu, come nell’invenzione di Morel, ogni giorno la stessa scena. Qualche temerario mette la capa fuori dal sacco e osa candidarsi a sindaco ma non fa sul serio, sa che non c’è trippa per gatti, che il potere dei voti sta ancora tutto da quella parte là. Così la città assiste imperterrita alla débacle, vorrebbe ribellarsi ma non sa, intrappolata in una sorta di malìa dalla quale non è più capace di guarire, ostaggio di un paradosso, quello di un potere debole e ancora forte.  Il fatto è che noi a Salerno abbiamo un problema. Il problema è che non s’ è completata quella “unica grande opera” sulla quale si giocano chissà quali patti e interessi; che la cittadella se ne sta lì con le sue finestre mute; la stazione marittima della Hadid langue come una balena spiaggiata;  il monumento all’eternità, il Crescent,  sibila con il vento tra le colonne finto-doriche. Sospese le rotatorie, le inaugurazioni,  i project financing; oggi di tutta quella speme resta un misero banchetto al ristorante del golfo e un po’ di tempo per riorganizzarsi .  Il Partito delle anime morte, il “circo equestre”,  non risponde manco più al telefono; il popolare di Napoli da accorsato politico ha fiutato l’aria e se l’è data a gambe; il gruppo della satira feroce ormai sa che colpisce un uomo morto; alla fine a furia di calci nei denti e ghigni sprezzanti pure i frangiflutti del lungomare si sono rotti. Certo c’è ancora qualche ammiratore sincero; il popolo delle luci ancora ti copre di insulti se osi toccare il sindaco ma con crudele contrappasso la città non è più sincera; venti anni di potere ringhioso le hanno insegnato l’arte della dissimulazione; ha raffinato quel genius loci per cui fregare gli altri è una figata e mentre sostiene ancora il caro leader , trama, complotta, congiura ed è pronta ad accoltellarlo nel salone dei marmi come Cesare al Senato:  nulla è quel che sembra e i migliori amici si attaccano sorrisi fasulli sulle facce, danno colpetti sulle spalle di incoraggiamento e nel frattempo pensano al momento in cui sferrare il colpo fatale. Forse più che riporre nel mausoleo le proprie ceneri, come il nostro pensava di fare qualche tempo fa, sarebbe il caso di cospargersi il capo di cenere, ammettere che si è un po’esagerato, che il troppo storpia e che andarsene via per un po’ può giovare, magari sette in anni in Tibet come Richard Gere. Anni fa un noto giornalista salernitano, Gaetano Giordano, dedicò un libro ad un altro storico sindaco della città, il sindaco del post alluvione, del boom edilizio, Alfonso Menna. Il libro si chiamava “Cento anni a Salerno”, ma il titolo si riferiva alla sua età non alla sua sindacatura, quella era durata “soltanto” quindici anni.