I meridionali e gli embrioni del futuro

embrioni del futuro

Pino Aprile non è molto simpatico agli storici accademici. Lo accusano di aver sdoganato la contro storia, o meglio la storia dei vinti del Mezzogiorno. Si può essere d’accordo o non d’accordo con la divulgazione “deviante” del giornalista pugliese, ma le sue osservazioni hanno conquistato migliaia di meridionali. Perché? Ha ridato fiato al meridionalismo proprio quando il sud, dopo vent’anni d’incuria, si è dimostrato pronto a reclamare una propria identità di fronte ad una classe politica, nella maggior parte centro-settentrionale, che ha cancellato il Mezzogiorno sotto i colpi battenti del leghismo razzista. Oggi scopriamo che gli uomini del nord hanno governato mostrando gli stessi vizi di solito attribuiti ai politici meridionali: ladri, corruttori, bugiardi e mafiosi. Così mentre la retorica nazionale si accingeva ad innalzare monumenti di parole per celebrare le lotte risorgimentali si ritesseva la trama di una coscienza determinata a scalfire i luoghi comuni che hanno dominato il rapporto Nord – Sud nell’arco della storia unitaria.

Una coscienza che non riguarda le statistiche della produzione. Una coscienza che apre il cuore alla modernità postmoderna, o come scrive Franco Arminio, per decretare l’atto di decesso della modernità ritmata da produzione e consumi. Una coscienza che guarda alla nazione con la consapevolezza di aver vissuto troppo a lungo impietriti da un complesso di minorità. Il dualismo economico ha modificato strutturalmente le condizioni di sviluppo: a nord l’industria, a sud il latifondo; a nord la produzione, a sud il consumo; a nord città moderne, a sud villaggi desolati (con l’insoluto problema della metropoli napoletana); a nord infrastrutture, a sud mulattiere, siccità, assenza di igiene e di linee ferroviarie; a nord l’Europa, a sud l’Africa. Secondo la tesi di Pino Aprile l’intenzione dei piemontesi era quella di conquistare il Mezzogiorno per farne una colonia interna (se ci pensate in quello stesso periodo gli stati europei occupavano i paesi africani per allargare i mercati di consumo, incamerare materie prime e recuperare forza lavoro) restringendo uomini e donne in una prigione che aveva, e ha, mura e sbarre fatte di pregiudizio. L’incapacità dei funzionari sabaudi di compenetrare i valori di una civiltà mediterranea, con le sue evoluzioni sociali, culturali ed economiche, ha stratificato nel tempo un vero e proprio moto di disgusto. «La diffusione del disgusto ha andamento endemico: genera razzismo e comportamenti sempre più violenti, a mano a mano che affonda radici nell’animo del singolo e nel corpo sociale. E il linguaggio che suscita è proprio quello del disprezzo, del dileggio, sino alla deumanizzazione…Il trucco del disgusto è semplice: se si dichiara che chi non ci piace è simile ad un verme o a un parassita, è poi facile considerarlo disgustoso, meritevole di essere escluso, evitato o annichilito… Il tessuto civile del Sud fu lacerato da una guerra di invasione e occupazione… il paese unito ha applicato discriminazioni, ostacoli, pesi, perché [il Mezzogiorno] restasse nello stato di minorità; nella condizione… del malato “che non muore e non guarisce”». Forse le cose non stanno proprio così, ma allo scoccare della nuova era digitale i meridionali stanno dimostrando di trovarsi a loro agio in un mondo che sta smaterializzando l’universo spazio temporale. Se non c’è più bisogno di una massa critica infrastrutturale per determinare le condizioni di sviluppo, ma basta un semplice cavo di rete telefonica per agire in un contesto economico virtuale, che tuttavia esiste nella realtà, allora non conta più avere una linea ferroviaria, un’autostrada a tre corsie o un aeroporto sempre disponibile. Conta invece esserci per trasferire piani, progetti, e risorse alla comunità sempre connessa che, come una placenta, contiene e alimenta gli embrioni del futuro.