Feuerbach. Prime luci nelle tenebre

Non è Dio a creare l'uomo, ma è l'uomo a creare Dio. All’apparenza semplice e scontata, per arrivare a questa conclusione sono serviti oltre 1800 anni, limitandosi al dopo Betlemme. Nella selva di credenze popolari e tra gli arbusti piantati da filosofi che hanno cercato (invano) di dimostrare l’indimostrabile, ha dovuto farsi largo Ludwig Andreas Feuerbach, tedesco di Baviera che prepara il terreno a “lui”, a Karl Marx, l’altra pietra miliare del pensiero umano dopo Socrate. Probabilmente quella selva si era fatta ormai troppo fitta: poca luce, poca aria, senso di smarrimento. E quando poi erano arrivati il prode Hegel e i suoi idealisti, allora era anche arrivato il tempo di un antidoto non più rinviabile. Ecco dunque Feuerbach. Ecco dunque le prime luci. Ecco i primi interventi di riparazione di un pensiero umano ormai ingessato sullo stesso tema. Rintracciabile, vedremo, anche nel calcio.

Il tedesco di Baviera studia, approfondisce, soprattutto si guarda intorno e decide che il primo pezzo da smontare è questo: Hegel  ha preteso di dedurre il finito dall'infinito, considerando il finito soltanto un momento negativo dell'infinito. Secondo Feuerbach invece, è nel finito che deve essere ritrovato l'infinito, non viceversa. Poi prende il pezzo, lo pulisce dalle incrostazioni, lo smonta, lo rimonta e piazza il secondo colpo. Questo: l’inizio della filosofia non è dunque Dio o l’assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. Il vero soggetto è l’uomo in carne e ossa, mortale, dotato di sensibilità e bisogni: dunque veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Non contento, Feuerbach mette tutto sul banco da lavoro e decide di sferrare il terzo colpo: quando a Dio si attribuiscono l'onniscienza, l'onnipotenza e l'amore infinito, in realtà si intende esprimere l'infinità delle possibilità conoscitive tipiche dell'uomo. In Dio e nei suoi attributi l'uomo individua e oggettiva i suoi bisogni e i suoi desideri; dunque «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé».

Smontato il meccanismo che molti ritenevano perfetto, Feuerbach mette l’etichetta finale sulla sua produzione uscendosene con questo capolavoro: <Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati da essa? Quale contraddizione>. E in questa contraddizione scova la colpa del cristianesimo: proiettando la propria essenza in Dio, l’uomo non la possiede più, la colloca in un altro mondo e per riaverla deve negare il mondo del sensibile, il suo mondo, il mondo di tutti i giorni. Dunque deve fuggire dal mondo e aspirare a un “altro mondo”, all’aldilà.

Il parallelo con il calcio non è poi così sconnesso, anche se bisogna naturalmente adattare i piani di ragionamento. Ogni squadra deve (o dovrebbe) avere una propria essenza, o almeno l’allenatore (spesso strapagato) dovrebbe costruirgliene una e su quella linea procedere con sicurezza. Accade invece con grande frequenza che tecnici incapaci di intendere e volere trovino l’unica essenza fuori dalle proprie squadre, in un “altro mondo” che si declina così: attendere, studiare, osservare, subire, chiudersi, sperare nel miracolo. E con tutto l’armamentario tattico da straccioni: l’attaccante che torna in difesa “a dare a una mano”, situazione salutata da tifosi e giornalisti di casa come una grandiosa rivoluzione e non per quello che è: incapacità di organizzare una manovra offensiva. Difesa a tre in partenza, ma con i due esterni di centrocampo che sono in realtà due difensori; se aggiungete che uno dei tre di centrocampo è un medianaccio capace solo di scalciare e che uno dei tre di difesa si stacca spesso come il libero di un secolo fa, ecco il “bentornato catenaccio” che ancora fa la fortuna di tanti tecnici da strapazzo. Infine l’unica punta con al fianco un trequartista: vi diranno che è per aumentare l’imprevedibilità della manovra; vi nasconderanno che è per tenere quanta più gente nella propria metà campo e sperare nel contropiede.

Filosofia e calcio non così lontani, dunque. Pochi provano a fare luce nella selva, tanti continuano a far crescere erbacce e sterpaglie.