Estate, dopamina e condivisione forzata

“Facciamo qualcosa”. La colonnina di mercurio sale e la vocina fa timidamente capolino. “Facciamo qualcosa”. I ghiaccioli si sciolgono appena li scartiamo, i tempi della ceretta non possono più dilatarsi, il condizionatore è il nostro amante notturno preferito. “Facciamo qualcosa”. La vocina si moltiplica, osa nella scala dei decibel, si fa coro da stadio. Quando non si può tenere la corona dei neuroni a bada piegando canotte da infilare in valigia, ecco che la dopamina in circolo spinge a pronunciare – spesso con cadenza ossessiva – le due parole infernali. L’esortazione (poco imperativa e molto piagnucolante) è come le havaianas, il mojto, il bikini e la caprese: una di quelle cose che l’estate ti appiccica addosso e di cui non ti libererai più finchè freddo e pioggia non giungeranno a salvarti. In principio una premessa: gli italiani – o la maggior parte di loro – attendono con ansia l’estate per partire per le vacanze. Perché in Italia – o in molti anfratti dell’Italia – la possibilità di usufruire delle ferie coincide necessariamente con il periodo in cui la calura non dà tregua. Spesso – molto spesso – con somma ed indiscussa gioia dei beneficiari. Anche per questo, io ODIO L’ESTATE (e non per il sole che ogni giorno ci scaldava e che splendidi tramonti dipingeva, mi perdoni Bruno Martino e la sua malinconia). In estate si DEVE viaggiare (e quando non lo si fa perché fortunatamente non si è ancora così pedissequamente lobotomizzati nel solco della moda comune, si afferra comunque istericamente al volo la prima valigia, e la si butta sul primo mezzo di locomozione utile perché è l’unica fase dell’anno in cui poter salutare familiari e colleghi senza che nessuno si prenda la briga di chiamare Chi l’ha visto). Quando non si può (perché viaggiare costa e non poco, perché i giorni liberi sono limitati, perché spesso il destino ci mette lo zampino e infesta con iatture tremebonde anche l’unico week end scampato al ritmo cinese delle quattorici ore lavorative no stop) la dopamina (sempre lei, malefica catecolamina autoprodotta dal nostro perfettissimo corpo per istigare attacchi di panico e mandare in frantumi relazioni collaudate) fa il suo ingresso sulla scena. Trionfale. Come attrice consumata dagli occhi bistrati. Ed è allora che, tra zanzare che ballano il tango sulle nostre caviglie, coscioni cellulitici strizzati in shorts da raccapriccio, piedi arcuati che si fingono acrobati in improbabili vertiginosità, bustine di Polase sniffate come piste di purissima coca colombiana e puzze di ogni genere fatte brillare dal sole in rivoli di sudore che accarezzano corpi quasi mai scultorei, è allora, dicevamo, che arriva, tagliente come un’onta, la mitragliata delle vocine roboanti: “Facciamo qualcosa”. No. Non si tratta di salvare il Pd dalla morte conclamata. Né di schiodare il nostro sindaco dalla poltrona. La politica non ci interessa. Non si tratta di rimboccarsi le maniche per aiutare la mensa dei poveri o di portare conforto agli ammalati ospedalieri. Le buone azioni non ci riguardano. Non si tratta neppure di organizzare una spedizione punitiva per picchiare a sangue il collega nullafacente, la cui miserabile leggerezza pesa come un macigno sulle nostre spalle, o di far strabuzzare gli occhi a suon di cazzotti al nostro ex fidanzato geloso che ci ha torturato per una vita con le sue pippe mentali. Della cattiveria più gustosa non siamo capaci. L’esortazione piagnucolosa – cari frustrati della vacanza che non c’è – è ben altra. La vocina sottende altri mondi: “Usciamo. Teniamo in alto i calici. Brindiamo. Festeggiamo. Inganniamo il tempo che passa”. In una parola, tiriamo a lucido i nostri involucri, mettiamoli in vetrina, gettiamoli in pasto al grande party della condivisione, in un happy hour dove tra un drink e l’altro puoi subire le chiacchiere di due idioti al prezzo di una, portare a casa più gossip in una serata che abbonandosi per sei mesi a Chi, conoscere nel dettaglio il funzionamento di un Ipad o la vera ricetta della parmigiana di melanzane e rinfrescarsi le gote con il pianto della mollata o del mollato di turno (che però ha già adocchiato il nuovo amore per l’estate, una di quelle robe che si promettono sfolgoranti ). Esagerata, con che gente te la fai (me lo dico da sola perché tanto lo stanno pensando tutti). E’ vero. L’elenco potrebbe continuare ancora e all’infinito: c’è chi ti guarda con commiserazione perché tuchehaiunpostofisso, tupoverolavoratoredipendente… ma come, non puoi così decidere dall’oggi al domani di prendere un aereo e vedere che si dice a Bali? (e tutti giù in sottofondo a mormorare poverino…). C’è chi al mare la domenica non va, perché la spiaggia è affollata, esaiiochecivadotuttalasettimana nonlisopportoqueicafoniarricchiticheinvadonoillidoconibambinipestiferi. Chi è troppo stanco anche per andare al mare la domenica nei lidi affollati con i bambini pestiferi, perchèilcaldostressaemancoiltempodialzarmidallettochegiàsièfattaloradicena (e non è una parodia di Antonio Rezza, giuro). E quelli che dopo tre mesi di non sonno dovuto alle poppate di lattanti di cui hanno decantato le lodi in nome di una presunta superiorità dell’essere genitore, si attaccano alla prima bottiglia di rum vagamente commercializzabile sperando che la tata metta le radici fino allo scadere dei diciotto anni di età del pargolo. Non voglio essere cattiva. Nel “Facciamo qualcosa” ci butto anche le mie amiche dell’autocoscienza. Le fanatiche di Jung e dell’enneagramma, dei test di personalità e della lettura dei sogni. Allora sì che si svolta. Perché tra un calice e l’altro, vuoi mettere la soddisfazione di scoprire che alla soglia dei quarant’anni abbiamo consapevolezza delle nostre vite? Questa parolina fantastica per qualcuno funziona meglio di un orgasmo. Io – che a questo punto mi chiedo, ma se non avessi neppure consapevolezza, che cosa continuerei a fare ancora qui su questo mondo dove non funziona nulla un granchè bene a partire dalla forza di gravità - continuo a dire che odio l’estate e i suoi meccanismi di socialità forzata. Che di altri mondi ci sarebbe un gran bisogno e che accarezzarli è forse ancora possibile senza necessariamente salire su un aereo. “Facciamo qualcosa”? Piuttosto, facciamo che qualcosa accada, dentro le nostre vite. Perché intorno è già successo tutto il fattibile. O almeno così pare…