Donne, amori e l'epopea di Gilgamesh

“L’amicizia può forse nutrirsi di osservazione e conversazione, ma l’amore nasce e si nutre d’interpretazione silenziosa. L’essere amato appare come un segno, un’ “anima”: esprime un mondo possibile a noi sconosciuto. L’amato implica, include, imprigiona un mondo che occorre decifrare, e cioè interpretare. Si tratta anzi di una pluralità di mondi; il pluralismo dell’amore non riguarda soltanto la molteplicità degli esseri amati, ma la molteplicità delle anime o dei mondi racchiusi entro ognuno di essi. Amare è cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati nell’amato”
Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni
Ore 22. Esterno, notte. I vapori del fumo di un bar sfumano il profilo di un tavolino sgangherato. In un luogo qualunque, in una stagione qualunque, in una città qualunque. Prima voce. Credimi che sono più grande e ho più esperienza di te. Gli uomini sono tutti immaturi. Non ce né uno che si salvi. Certo, io la speranza di incontrare qualcuno di diverso non la perdo. Ma è difficile. E’ tremendamente difficile. Il tono è solenne. Seconda voce (ferma, per ripassare lo stucco del fondotinta sulla propria coscienza senza sbavatura alcuna): Io mi sono rassegnata. Il problema è mio che sono troppo esigente e non mi accontento. Terza voce metallica: E’ tutta colpa della sindrome di Peter Pan. Vedi, non ne è immune quasi nessuno, ma LORO stanno messi peggio di noi, perché non hanno raggiunto nessuna forma di coscienza, come dire, di consapevolezza….
Un tempo il viaggio che più di tutti m’incuriosiva era quello nell’essere umano, nei labirinti del pensiero, nelle perversioni, nelle fobie, perfino nelle banalità di un quotidiano capace di offrire più di una sorprendente svolta. Ancora oggi sono convinta del fatto che tentare di spicconare quanto le castrazioni dell’intelletto hanno lasciato sedimentare con cura, possa rappresentare la scoperta più affascinante, come dal caos risalirne l’ordine e ritrovare sul fondo di un fiume le tracce di una civiltà antica. Ma la contrazione di un tempo consumato, da spremere succhiare e gettare via senza pensarci, ha visto evaporare le scorte di ironia e di tolleranza, perdute chissà dove, in gocce asciugate da troppo rigore e da poca indulgenza.
Noi/Loro: non ho mai sofferto le dicotomie linguistiche, il tentativo di tracciare confini netti e rigorosi, di identificare – per genere – uno stato dell’anima. L’ho sempre ritenuto un meccanismo triviale, per certi versi una forma freudiana di diniego (bollo con il marchio di diverso da me ciò a cui ambisco ma che per neppure troppo insondabili ragioni sfugge al mio raggio di azione o alla mia possibilità di presa) e a tratti una stigmatizzazione assoluta di un’identità fragile, che per autoaffermarsi necessita giocoforza di un contraltare (come chi posta sui social network ogni azione declinata per nano secondo, dal mare di Acciaroli alle scatole di mais impilate al supermercato).
Capita, quando le donne parlano d’amore, che si raccontino un viaggio che non faranno mai. E come tutte le esperienze che aprioristicamente vengono reputate titaniche e dunque quasi impossibili (per paura di mettersi in gioco, per assoluta mancanza di conoscenza del proprio io e dei propri desideri, per incapacità di rimodularsi sulla realtà, per terrore di dover modificare la propria routine, per incoscienza di ciò che significhi realmente responsabilità, banalmente, per una stupidità leggera) le parole adoperate per dare forma, colore e profumo a questo viaggio, sono quelle dell’epopea di Gilgamesh. E’ il racconto delle origini di un mondo che però non si conosce, la cui vertigine fa talmente tremare da spingerlo lontano, nell’iperuraneo di ciò che è solo, forse immaginabile.
Capita, quando le donne parlano d’amore, che si improvvisino guide turistiche del sentimento. C’è chi non hai messo il naso fuori da un villaggio all inclusive (e anche se si trova dall’altra parte del mondo ha continuato a vivere in un perimetro di rassicurante confort che avrebbe potuto conquistare con maggiore faciltà sotto casa)e chi, a tutti i costi, deve attraversare a piedi la Patagonia per dimostrare di essere un viaggiatore e non un turista.
“Io ritengo giusto avere uno scopo, compiere un qualche cosa, convincersi che la vita abbia un senso. Avere qualcosa a cui aggrapparsi in ogni evenienza è necessario, significare qualcosa per gli altri…”. Sagomandosi i piedi, Bibi Anderson lo ripete a Liv Ullman che rifiuta di parlare (Persona, Bergman). Non tutti sono bravi a crederci fino in fondo. Ma sono pochi – questa, lo ammetto, è volgarissima spocchia, è l’aver ceduto ad un megalomane ed incontrollabile istinto di superiorità – a scegliere di non affrontare il viaggio deleuziano nel molteplice, per radicata e - questa volta sì, CONSAPEVOLE - convinzione.
Odio i minimalisti, ed anche Raymond Carver. Ma ogni tanto, nei vapori di un bar all’alba, tra interlocutori che ancora non hanno rinunciato alla riproducibilità tecnica della parola, mi chiedo, “di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”