Costitutiva o no, la camorra è ancora viva e vegeta

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A poche ora di distanza dalla pungente (poi rivista) dichiarazione della presidente della Commissione nazionale antimafia, Rosy Bindi (“ho parlato della camorra come elemento costitutivo della società e della storia della città”), è arrivata la doccia fredda dell’ennesima indagine della magistratura che ha notificato avvisi di garanzia per voto di scambio politico-mafioso a Monica Paolino (consigliera regionale del Pdl nonché presidente della Commissione regionale che si occupa di camorra e beni confiscati), al marito Pasquale Aliberti, sindaco di Scafati, alla segretaria comunale e a un altro personaggio minore. I reati per i quali si indaga riguarderebbero appalti pubblici messi a bando dal Comune. Nihil sub sole novi, compresa la fiducia (di rito) degli indagati nel corso della giustizia, e a collaterale la richiesta di dimissioni della Paolino, avanzata in real time dal M5S, e a seguire dal Pd campano, da Rosaria Capacchione e infine dal Governatore De Luca. Tutti a posto con la rispolverata coscienza civile. Tranne quella parte di cittadini, forse anche vasta ma di certo sfiduciata e sfinita, che proprio non ce la fa più ad assistere a questa ennesima sceneggiata nella regione che l’ha inventata. Cittadini che increduli si chiedono: possibile che lo Stato ci racconti sempre la stessa novella, con gli stessi protagonisti, ingredienti e colpi di scena? Possibile che in tanti anni di lotta, di morti ammazzati nelle strade, di vittime innocenti tra civili e forze dell’ordine, proprio ora che la criminalità agisce come una holding con tracciabilità della propria presenza nell’attività economica e persino in quella istituzionale, resti così difficile tagliare alle radici il fenomeno? Lo Stato non percepisce che ogni volta che suoi organi avviano un’indagine giudiziaria che si annuncia clamorosa, e che strada facendo finisce in un nulla di fatto, la criminalità si rafforza sul proprio terreno di radicamento e nella coscienza civile dove subentrano rassegnazione e sfiducia. E’ questa la triste conclusione sulla situazione in Campania. Quale altra spiegazione dare sennò a quel 50 per cento di cittadini che ormai ritengono persa la battaglia, e non vanno più a votare. Essi che assistono basiti e impotenti a sempre maggiori livelli di contiguità, quando non di vera e propria contaminazione, tra criminalità organizzata e strutture del potere politico. Ormai nessuno si beve più la storiella che l’organizzazione criminale sarebbe chissà come e perché invincibile. Diventa invincibile quando si salda in un rapporto di do ut des – lo ha argomentato con efficacia Marcello Ravveduto su la Città di ieri – con pezzi della politica e delle istituzioni che fanno favori in cambio di favori (favouritism’s swapping). In un’epoca in cui per la politica può risultare scomodo o rischioso elargire direttamente posti di lavoro in cambio di voti, può tornare comodo assegnare ad altri il compito mettendoli in condizione di creare essi posti di lavoro, ovviamente per soggetti che non si rifiutino poi di votare e far votare per chi si indichi loro. Funzionano più o meno così oggi le cose. Un meccanismo quasi perfetto, nel quale i decisori della politica non agiscono mai di persona, ma per il tramite di soggetti “marginali”, rendendo difficile per gli investigatori la ricostruzione del quadro probatorio. Accade così che processi partiti con il suono di tromba si sgonfino strada facendo, soprattutto riguardo alla responsabilità penale di politici. Con un ulteriore effetto devastante sul versante sociale: quello di mostrare che lo Stato riesce, se vuole, a colpire la criminalità. Ma fa fatica a usare uguale rigore investigativo e giudiziario per la classe politica che ai vari livelli lo gestisce. Se una critica si può muovere dunque alla presidente  della Commissione nazionale antimafia è quella di aver accusato in sostanza di ignavia la società napoletana e campana, senza interrogarsi sulle cause remote e prossime che hanno impedito ad essa di darsi quelle che nel 1906 William Graham Sumner chiamò “folkways”, norme sociali (non giuridiche), convenzioni “il cui rispetto è assicurato dalla pressione sociale e dalla reazione spontanea delle persone con cui entriamo in interazione a seguito di una nostra infrazione, in virtù della grande forza di modellamento che quelle norme possiedono, essendo considerate ovvie e naturali dai membri del gruppo che le ha poste in essere” (Gabriella Giudici). E forse è proprio questo il dato più allarmante a sud del 42° parallelo: l'assenza di pressione sociale, di reazione spontanea delle persone verso chi si metta contro le “norme sociali”. L’unica risposta che riesco a trovare è che la società del Sud nel suo insieme quelle norme non sia mai riuscita a darsele. Per colpa delle sue classi dirigenti.