Cosa c’è dentro le primarie campane?

di Carmine Pinto
Il voto meridionale non ha riservato sorprese. Sono vent’anni che il sud determina risultati importanti per il governo del paese o per il potere all’interno dei partiti, anche se spesso mostra due volti opposti: una tendenza governativa, portata a privilegiare le forze al potere e comunque vincenti o, di converso, un istinto radicale che ha visto premiate personalità radicali e critiche del sistema. Così, di volta in volta, queste due anime si alternano o, addirittura, convivono anche in vicende come le recenti primarie del Partito democratico.

Nel centro nord il risultato ha avvantaggiato Bersani su Renzi, anche se di poco e con una continua alternanza tra territori e gruppi sociali a favore dell’uno o dell’altro. Nel sud il segretario ha completamente surclassato il sindaco di Firenze, con risultati bulgari. In regioni come la Sicilia o la Calabria, la differenza tra i due arriva a volte a trenta punti. Ovviamente il risultato è analogo anche per la Campania (circa 25 punti in meno). Il giorno dopo il voto, infatti, tutti i dirigenti dei capoluoghi di provincia meridionali hanno bussato cassa, rivendicando il titolo di territorio “più bersaniano d’Italia”. Insomma anche il voto interno ad un partito finisce per confermare il paradigma eccezionalista del Mezzogiorno: siamo sempre i migliori (o i peggiori) e questo è una ottima occasione per chiedere un riconoscimento (o un risarcimento).

Nel voto campano (e meridionale) c’è una indicazione profonda che conferma la convivenza di due segmenti: una ampia fascia di elettori d’opinione, divisi a seconda delle simpatie tra i diversi candidati e visibile nella massiccia ed entusiasta corsa ai seggi; una altrettanto grande area di elettori militarizzati, mobilitati per il voto dal notabilato locale per ottenere una legittimazione come rappresentante sul territorio del leader nazionale. Una tradizione che è nel Dna stesso del Mezzogiorno, da Nicotera a Gava fino alla più conosciuta storia repubblicana.

Nel 2012 non si tratta certo di replicare le invettive di Gaetano Salvemini contro gli ascari di Giolitti, ma di capire il senso di questa permanente relazione, nel sud, tra potere locale, rappresentanza sociale e legittimazione nazionale. I due mondi del voto campano sono gli stessi del Mezzogiorno. C’è anche da noi una società civile, spesso giovane, appassionata e con voglia di partecipare (come si è visto proprio alle primarie), riconoscibile nella moltitudine di associazioni civiche e di volontariato che oramai affollano le nostre città. Ma c’è stata una mobilitazione militare degli apparati, normale e scontata in qualche caso, molto soffocante in altri, che rivela il volto nascosto di una dura lotta per la leadership interna al PD.

In Campania sono in gioco molte cose: i prossimi deputati, la guida delle istituzioni locali, la presenza in un possibile governo di centro sinistra, il futuro presidente della regione. La battaglia di questi giorni è tutta vincolata a misurare i rapporti di forza interni, ha già reso visibile due potenziali due linee alternative: una spostata a sinistra che ha come centro il partito napoletano, un’altra decisionista e rivendicativa che parte dall’esperienza salernitana. Eppure, ancora una volta, questo mostra il grande limite del PD campano (e meridionale). Queste posizioni non hanno forza nel Mezzogiorno, vivono in funzione di una legittimazione del leader nazionale a cui devono portare i voti, e questo le rende permanentemente subalterne. Il voto di domani ancora una volta sarà utile per comprendere che profilo avrà il voto campano e, dietro questo risultato, chi saranno i veri protagonisti del 2013.

pubblicato su "la Città" del 1/12/2012